Luisa Sanfelice: un fiore reciso

Luisa Sanfelice era una nobildonna napoletana coinvolta nella caduta della Repubblica Partenopea del 1799. Nata nel 1764, figlia di Pietro de Molino, un ufficiale dell’esercito borbonico, sposò nel 1781 Andrea Sanfelice, appartenente a un ramo dell’omonima nobile famiglia che cadde in disgrazia a causa di una condotta esageratamente dissipata: accumulò infatti debiti ingentissimi, provocando addirittura l’intervento della Corte che nel 1788, in seguito al dissesto finanziario, ordinò loro di ritirarsi in campagna, mentre i beni venivano affidati a un amministratore. Nel 1791 i coniugi furono poi perfino separati d’autorità e rinchiusi in convento.

Tornata a Napoli prima dello scoppio della rivoluzione del 1799, Luisa Sanfelice si trovò casualmente coinvolta negli avvenimenti legati alla Repubblica Partenopea in seguito alle sue vicende amorose: era una donna bellissima e fu corteggiata indistintamente sia da uomini repubblicani-rivoluzionari sia da monarchici-reazionari, un raro esempio di par condicio ante litteram. Tali frequentazioni la portarono a contatto nello stesso tempo con ambienti progressisti e conservatori e, venuta a conoscenza di una congiura monarchica da un suo ammiratore, il banchiere Gerardo Baccher, un giovane esponente filo borbonico che si accingeva con altri a congiurare contro la Repubblica, ne fece partecipe un altro suo spasimante, il repubblicano Ferdinando Ferri (o, secondo alcuni, il futuro storico della Rivoluzione stessa Vincenzo Cuoco).

La congiura fu così scoperta, i cospiratori arrestati e fucilati, e la Sanfelice suo malgrado, al di là di ogni suo intendimento politico, fu esaltata come “madre e salvatrice della patria”. Il Monitore Napoletano di Eleonora Pimentel de Fonseca, nel numero del 13 aprile del 1799, decantando e amplificando il suo gesto scrisse così: «Una nostra egregia cittadina Luisa Molina Sanfelice,  svelò venerdì sera [5 aprile] al governo la cospirazione di pochi … Essa, superiore alla sua gloria, ne invita premurosamente a far noto che ugualmente con lei è benemerito della Patria in questa scoperta Vincenzo Cuoco».

Dopo la caduta della Repubblica e la restaurazione borbonica avvenuta pochi mesi più tardi ad opera dei Sanfedisti filo borbonici del cardinale Ruffo, la Sanfelice fu a sua volta processata, con un procedimento palesemente irregolare in cui emerse chiara la volontà di pura vendetta da parte del restaurato re Ferdinando IV che all’epoca del processo, settembre 1799, si trovava ancora a Palermo, e fu condannata a morte.

Per evitare la pena, simulò una gravidanza che rimandò l’esecuzione di circa un anno. In fondo, tutti sapevano che era una finzione ma, scrive Benedetto Croce, il filosofo, storico, politico, critico letterario, autore di  “Luisa Sanfelice e la congiura dei Baccher”, edito a Palermo nel 2004, «i medici, per compassione e per ribrezzo di collaborare col carnefice, avevano attestato tutto quello che s’era voluto». In tal maniera la Sanfelice ebbe un periodo di pace di alcuni mesi in carcere e tutti pensavano che la sua condanna a morte fosse stata ormai evitata. Invece nel luglio del 1800, il re volle che la Sanfelice fosse sottoposta a un’altra visita, ma stavolta a Palermo, che accertò definitivamente il vero: la gravidanza non esisteva. Nonostante l’intercessione della stessa principessa ereditaria Maria Clementina che, avendo dato alla luce un maschio, l’atteso erede al trono, chiese la grazia, Luisa Sanfelice fu giustiziata sulla piazza Mercato a Napoli (in alto una riproduzione), ripristinando una consuetudine ormai caduta in disuso, mediante decapitazione.

Condotta al patibolo l’11 settembre 1800, le fu riservata un’esecuzione barbara, «una scena selvaggia», come la definisce Benedetto Croce. Ma perché “selvaggia”? In fondo ogni esecuzione, nella sua contorta normalità, lo è: è anche lucidamente folle e smaccatamente contro natura, ma perché definirla “selvaggia”? I fatti andarono così… Mentre si portavano a termine gli estremi preparativi, un soldato lasciò partire accidentalmente un colpo di fucile e il boia, intimorito e già sospettoso di qualche tumulto, si adombrò e lasciò cadere in fretta la scure sulle spalle della vittima: solo in seguito, tra le grida d’indignazione del popolo, per completare il macabro lavoro le troncò la testa con un coltello, ponendo fine alle atroci sofferenze della giovane.

Il suo caso commosse da subito il sentimento generale per una decapitazione brutale, barbara, inattesa, ormai sicuramente inutile, che scosse gli stessi ambienti borbonici a Napoli e gli stessi lazzari, i controrivoluzionari sanfedisti che avevano ripristinato la monarchia. Ciò che aveva fatto, chiaro prodotto dell’ingenuità, le costò la vita in nome della restaurazione borbonica sul cui altare fu immolata, vittima della conservazione e della reazione controrivoluzionaria: un’esecuzione, questa, che la fa annoverare tra gli ultimi martiri della Repubblica Napoletana del 1799.

Effimera quella Repubblica Partenopea del 1799, una delle prime applicazioni pratiche dei principi instillati dalla Rivoluzione Francese di dieci anni prima, di cui fu figlia diretta, un’esperienza repubblicana in cui  la vicenda di Luisa Sanfelice si staglia con un risalto particolare.

Ragion di Stato, tutto si fa per te, tutto si fa per difenderti, anche simili bassezze!

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