“Una vecchia vide coricata per terra un’anfora vuota che per via del fondo di vino Falerno ancora restante nella sua nobile terracotta, diffondeva intorno un delizioso profumo. Dopo averlo aspirato avidamente con tutta la forza delle narici, esclamò: “O spirito soave! Chissà come eri buono prima, se tali sono i tuoi resti!” (Fedro)
Scorrono lenti come i secoli dell’umanità, resistono alle vicende e ai mutamenti: sono i sapori dell’antichità, immortali. Già l’Iliade parlava del vino di Priamo, il più antico tra i vini greci, prodotto nell’isola Icària, dalla vite sacra. Il ciclo epico greco fissa l’inizio del tempo dell’uomo nell’arte di navigare ed in quella di produrre vino. Nell’antica Grecia, il vino costituiva l’elemento centrale della vita e della cultura: strumento cerimoniale e celebrativo, bevanda d’incontro e di comunicazione, da consumarsi come atto collettivo nello spazio del symposium, il “bere insieme”. Il culto di Dioniso, dio del vino, essenza del creato nel suo perenne fluire, era profondamente radicato nella mentalità del tempo. In virtù di un simile ruolo sociale e religioso, i Greci contribuiscono enormemente alla viticoltura, sviluppando efficaci tecniche introdotte nei paesi da essi colonizzati, favorendo la coltivazione della vite e la produzione di vino, che diventano parte integrante delle culture e dei riti del Mediterraneo.
Il vino è uno dei prodotti dell’antichità legati al nome di Magna Grecia: Enòtria, “la terra del vino”, dal greco oînos, “vino”, era denominata la zona a sud di Metaponto, considerata dai Greci terra eccellente per la produzione del vino. La nostra penisola si dimostra adattissima alla coltivazione di questa pianta: Catone nomina la vigna come la prima delle culture italiche; Orazio afferma: “Non piantare, o Varo, alcun albero prima della vite sacra!”; ed ancora, Plinio: “Da dove potremmo cominciare se non dalla vite, rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dar l’impressione di aver superato, con questa sola risorsa, le ricchezze di ogni altro paese, persino di quelli che producono profumo? Del resto, non c’è al mondo delizia maggiore del profumo della vite in fiore”. I Romani ereditano una profonda conoscenza dei segreti della coltivazione e della vinificazione, sicché il vino diventa un prodotto di eccellenza e si diffonde oltremodo, ma è solo in seguito alle vittorie fra il V e il III secolo a.C. che, determinandosi un indirizzo più industriale dell’agricoltura, la vite inizia ad occupare il primo posto fra le colture di gran reddito attraverso la realizzazione di aziende agricole razionali, fornite di vere e proprie piantagioni specializzate.
E finalmente giungiamo nella Campania settentrionale, dove non ci si annoia mai, dove c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire e approfondire e si ha voglia di perdersi in un flusso incessante di eccezioni, contraddizioni, paradossi: chi vuole seguire le radici più profonde del vino europeo, deve per forza passare di qua. Qui nasce, e vive ancora, lo spirito del Falernum, eterno come il vino che fu nettare degli dèi, che diventò il nettare di Dio, che è piacere da distribuire al genere umano, che è gusto intimo e perenne passione. Senza il Falerno non sarebbe nata l’Enologia. Il Falerno è il primo vino ad essere stato certificato come di pregio superiore, riconosciuto come unico, il primo DOC della storia dell’umanità. Prodotto nella vasta area collinare che da Sessa Aurunca e dalle falde del vulcano di Roccamonfina si spinge fino al monte Massico, è uno dei vini più famosi e recensiti dell’antichità, della cui qualità e fama è prova il costo elevatissimo, testimoniato dalla scritta ritrovata a Pompei: “Edone fa sapere: qui si beve per 1 asse; se ne paghi 2, berrai un vino migliore; con 4, avrai vino Falerno”.
I vini dell’antichità erano spesso addizionati con miele, spezie e talvolta acqua di mare, anche per allungarne i tempi di conservazione. Dopo la vendemmia, il mosto era depositato nei dolia, prototipi di botti dapprima di creta, poi di legno, tappati ed interrati per 3/4 della loro altezza, e lì lasciato fermentare. Dopodiché, il vino ottenuto era travasato in anfore a doppia ansa chiamate seriae, di capienza dai 180 ai 300 litri, impermeabili e dotate di una punta che si conficcava nel pavimento. Prima del III sec d.C. le anfore di ceramica erano i contenitori principali per il traffico marittimo, con una capacità di una ventina di litri, chiuse ermeticamente con tappi di sughero e sigillate con pece, che consentiva l’invecchiamento; su di esse s’imprimeva un’etichetta, il pittacium, recante il luogo di provenienza del vino, il nome del produttore e quello del console in carica.
Vuoi per il colore rosso che evoca il sangue, l’elemento vitale per eccellenza, vuoi per l’entusiasmo di cui è portatore, il vino e il suo consumo si collocano in ogni tempo in una dimensione cerimoniale, carica di forti valenze simboliche, da cui scaturiscono la ricca mitologia e l’alta ritualizzazione che l’hanno accompagnato lungo tutta la storia dell’Occidente e che ancor oggi perdurano, quale strumento di superamento dell’esperienza ristretta della propria individualità: non a caso il Cristianesimo, al tramonto dell’Impero, lo impiegherà per il suo più alto rito, contribuendo così indirettamente alla fioritura della vitivinicoltura in Europa.
Emiliano
Adele