Il 23 settembre 1943, 77 anni fa, come ci ricorda la targa in Piazzetta Deportati, veniva scritta una delle pagine più tristi della storia del nostro paese, e intero Comune, al tempo della Seconda Guerra Mondiale: il rastrellamento e la deportazione in Germania di moltissimi giovani uomini ad opera delle truppe naziste. Mi duole constatare che le nuove generazioni conoscono poco di questo episodio storico ancora relativamente recente e non vorrei che, anche a causa della scomparsa degli ultimi superstiti della deportazione, tale avvenimento possa essere da loro completamente ignorato.
Io ho avuto la fortuna di ascoltare tante volte con attenzione il racconto del drammatico avvenimento direttamente da mio nonno, Dante Luberto, reduce della deportazione in Germania e in seguito Presidente della sezione comunale dell’Associazione Nazionale Ex Internati.
Il rastrellamento degli uomini adatti al lavoro avvenne poco tempo dopo la firma dell’Armistizio dell’8 settembre ’43 da parte del Generale Badoglio, in un’Italia smarrita e allo sbando, teatro di rappresaglie e in cui anche tanti uomini che erano stati reclutati nell’Esercito Italiano avevano fatto ritorno alle proprie famiglie.
Mio nonno, originario di Carinola, venne deportato all’età di 19 anni, non ancora maggiorenne per la legge dell’epoca.
Nelle prime ore del mattino del 23 settembre 1943, Carinola venne svegliata da gruppi di SS che piantonavano con mitragliatrici pronte al fuoco le principali vie dell’abitato mentre altre SS passavano a dare la “sveglia” dando un forte colpo col calcio dei fucili contro le porte delle abitazioni. Tutti gli uomini abili al lavoro dovevano uscire di casa e radunarsi nella piazza del paese per evitare violente rappresaglie contro le proprie famiglie: questo era il bando-ultimatum diramato dal podestà fascista che accompagnava le squadre tedesche.
Molti accorsero, altri preferirono rischiare disertando e nascondendosi in soffitte, cantine o, come avvenne a Casale, nelle grotte sulle colline che circondano il paese. I tanti che si presentarono, tra le strazianti grida di madri, mogli, sorelle e figli, vennero caricati su camion militari e portati in punti di raccolta: alcuni alla Selleccola, vicino Casanova; altri, tra i quali mio nonno, in una masseria dismessa nelle campagne di Mondragone chiamata Torre di Pavoncella. Il dì seguente vennero trasferiti alla stazione di Sparanise dove, stipati in carri merci, partirono per ignota destinazione.
Ricordo nitidamente lo sguardo di mio nonno che, nel raccontare, meglio di qualsiasi parola riusciva a trasmettermi l’angoscia di quegli istanti. Il viaggio fu disagiato, scomodo e snervante ed estremamente lungo poiché il treno procedeva a velocità ridotta a causa delle linee ferroviarie danneggiate dai continui bombardamenti Alleati. Ammassati in carri merci, scortati da militari tedeschi pronti a far fuoco, con un secchio per i propri bisogni fisiologici e sostentati da «un mattone di pane» da dividere in otto, immagino la tensione dei poveri sventurati nel formulare ipotesi sulla loro destinazione e sul loro incerto futuro. Mi ha colpito e aiuta a comprendere bene ciò che doveva essere quel viaggio il fatto che mio nonno, in un suo appunto, abbia definito l’arrivo a Dachau «una vera boccata d’ossigeno per la nostra condizione».
Arrivati in Germania furono sistemati nel campo di Dachau, non un campo di concentramento bensì un tristemente noto campo di sterminio. I giorni passati lì furono sicuramente i più duri ma fortunatamente furono pochi: dopo una ventina di giorni, i nostri giovani vennero trasferiti in un campo prima a Monaco di Baviera e successivamente in Alta Slesia (nei pressi dell’attuale Lesna, Polonia) per essere impiegati come manodopera coatta nella fabbrica della BMW (che all’epoca produceva non automobili ma infernali macchine da guerra). Un lavoro di massacranti turni di 12 ore, di giorno e di notte, strettamente controllati e puniti severamente in caso di un calo di produttività. Le condizioni di vita erano molto dure.
Mio nonno, sfiancato dal lavoro, nel dicembre 1944, dopo 14 mesi di prigionia, dichiarato inabile al lavoro, insieme ad un compaesano, venne rimpatriato in Italia. I due, abbandonati a sé stessi nell’Italia settentrionale sconvolta dalla dura Resistenza, restarono bloccati per ben 6 mesi, raggiungendo Carinola solo nel maggio del ’45, dopo aver accolto l’annuncio della Liberazione a Torino. Alcuni dei giovani internati del Carinolese non fecero mai ritorno a casa.
Mio nonno ha condiviso la stessa sorte di oltre seicentomila italiani deportati e internati nella Germania nazista per essere utilizzati come manodopera schiavizzata nella produzione di guerra tedesca, i cosiddetti ‘schiavi di Hitler’. Un aspetto, questo, poco conosciuto della storia del Secondo Conflitto Mondiale ma che appartiene a pieno alla storia d’Europa, comune a quello delle altre vittime di quella spirale di sonno della ragione e dell’umanità che fu il nazifascismo.
Paolo Ullucci
Ps – Come giustamente notava l’autore dell’articolo in una nostra chiacchierata, la targa citata, che indica il nome della nostra Piazzetta, non contiene alcun riferimento storico né alla data né all’episodio del rastrellamento nazista, fatto che chiaramente non chiarifica le motivazioni di quella targa stessa. Purtroppo dobbiamo dire che l’abbiamo fatto spesso presente, anche in sede di richiesta con un disegno di poche pretese ma sicuramente esemplificativo al massimo, ma oltre a una cerimonia raffazzonata, sbrigativa e per pochi intimi effettuata nella mattinata di uno dei primi giorni di giugno del 2016, di più non si è riuscito ad ottenere. Anche se qualcuno le definisce sbrigativamente inutili minuzie ci auguriamo vivamente che il prossimo sindaco di Carinola trovi il modo e il tempo di porre rimedio a questa vera e propria mancanza storica, in modo da aiutare a preservare la memoria dei tempi passati.