Intervista a Lucia Goracci, vincitrice del Premio Serao 2018

Consegnato ieri sera il Premio Giornalistico Matilde Serao 2018, inviata RAI nelle zone attualmente più difficili del Pianeta, «Non SOLO un mezzobusto, non SOLO una cronista, non SOLO un’inviata, ma tutte queste cose messe insieme» come giustamente osservava il direttore de Il Mattino Alessandro Barbano. Anche noi, che la seguiamo assiduamente su Twitter ed altri social, le abbiamo rivolto alcune domande cui cortesemente ha risposto.

casaledicarinola.net – Sappiamo che è già da un po’ di tempo che si parla di lei come di una possibile vincitrice di questo Premio, un riconoscimento di per sé ancora piccolo ma prestigioso perché ispirato ad una “grande” del suo mestiere, e non è un caso se usiamo la parola mestiere visto che fatto con criterio è paragonabile al lavoro manuale di un artigiano, ma i suoi impegni professionali hanno rimandato questo “matrimonio”. Ci racconti dei suoi primi contatti con i responsabili di questo Premio e quindi con la redazione de Il Mattino e con l’Associazione Culturale Matilde Serao di Carinola.

Lucia Goracci – Non conoscevo il pregresso – lo apprendo qui per la prima volta. Il Direttore del Mattino, Barbano, mi ha raggiunto al telefono per annunciarmi la bella notizia. Matilde Serao è una pagina fondamentale della storia della cultura italiana. E poi una donna. Non posso che essere fiera e riconoscente di essere stata scelta per un premio intitolato al suo nome.

Matilde Serao, sicuramente la prima giornalista in rosa dei tempi moderni: qual è il suo rapporto-conoscenza della “madre fondatrice” de Il Mattino e di altri giornali?

Un rapporto che origina negli anni del liceo, con mie incursioni personali anche più recenti. Faccio un esempio: quando non erano più i miei professori a scegliere, ma le mie individuali passioni, scoprii un testo bellissimo e meno conosciuto come Nella terra di Gesù, che è il diario, intenso e commosso, di un viaggio della Serao in una Palestina di fine secolo, gravida di avvenimenti e promesse, molti giunti, con le loro convulsioni, sino a noi

Da qualcuno è stata definita “giornalista militante”, ed è facile capire perché visto che nei suoi servizi la si vede spesso con il giubbotto antiproiettile, e una “giornalista semplice”, perché esterna sentimenti come la preoccupazione e, perché no, anche un’umanissima angoscia, ma lei come preferirebbe esser definita?

Giornalista basta e avanza. E’ tra i mestieri più nobili. Può esserlo persino nelle declinazioni apparentemente più compromettenti – in termini di attendibilità e credibilità del racconto. Provo a spiegarmi: si usa riferirsi all’embedding – il ricorso cioè del giornalista alla possibilità di raccontare taluni eventi bellici al seguito degli eserciti che li combattono – come un’esperienza di per sé limitativa e deformante. Il giornalista embedded, è il luogo comune, non dice la verità ma fa da cassa di risonanza all’esercito con cui si trova. Può essere vero. Ma non è assolutamente e incontrovertibilmente vero. Non lo è mai se c’è uno sforzo da parte del giornalista nella ricostruzione dei fatti, di contestualizzarli al lettore, all’ascoltatore; di chiarirgli sempre che il proprio punto di osservazione è angusto e da altri determinato.

Prendiamo l’uomo che viene convenzionalmente indicato come fondatore del mestiere di inviato di guerra – fu un giornalista del Times di Londra, William Russell. Era il 1854, fu mandato embedded sul fronte della guerra di Crimea. Chi ce lo invitò, la Corona britannica – e, chissà, magari anche chi ce lo inviò, non lo sappiamo – immaginava che la sua penna avrebbe riportato, lontano nella Madrepatria, il racconto epico di una guerra fatta di eroi. Egli invece riferì l’assurdo eccidio della battaglia di Balaclava, quando i cavalleggeri inglesi furono massacrati in un’inutile carica contro i cannoni della Russia zarista. E fu subito richiamato.

Anche il giornalista embedded, dunque, può essere autore di un racconto intellettualmente onesto. Il cinico non può fare questo mestiere, soleva dire un altro nostro padre spirituale, Kapuscinski. Tanto più che in guerra sei sempre embedded, che tu sia al seguito degli eserciti regolari, o dei gruppi ribelli che li combattono. Gli uni e gli altri hanno la propria narrativa, cui vorrebbero assoggettare il tuo racconto.

Non credo, comunque, che il mio sia un giornalismo militante, nel senso che punto sempre a mettere il lettore/ascoltatore nelle condizioni di crearsi da sé le proprie idee su quanto sta accadendo. Metodologicamente detesto le verità rivelate, ma la scelta del punto d’osservazione di un conflitto è importante. La guerra di Gaza la racconto da Gaza – per fare un esempio – non da Gerusalemme.

Una delle qualità migliori di donna Matilde era sicuramente quella di provare empatia con la povera gente, immedesimarsi nell’altrui dolore e farsi interprete dei loro bisogni: ecco, siccome spesso l’abbiamo vista ritratta in foto con piccole vittime di bombardamenti e gente sfollata, possiamo azzardare un paragone tra lei e la Serao che amò a tal punto i vicoli di Napoli da descriverli accuratamente in un suo celebre romanzo?

Può azzardarlo e io le sono parecchio grata. Raccontare chi le guerre le subisce  – e non quelli che le dichiarano – penso sia la tensione intellettuale ed emotiva di ciascuno di noi. E’ il mio sforzo principale, ogni conflitto che arriva. La condivisione è empatia, per questo cerco sempre di spingermi il più vicino possibile al luogo dove la guerra colpisce, infierisce. Perché se patisci la sete con loro, se hai paura come loro, se devi abbassare la testa scivolando con loro di vicolo in vicolo perché ci sono cecchini, ebbene, la sofferenza dei civili intrappolati nei conflitti non può rimanerti indifferente. E il rispetto per essi prevale su tutto il resto: perché tu puoi andartene in qualsiasi momento. Loro rimangono.

Si vesta un po’ dei panni di Matilde Serao e dica fuori dai denti quello che pensa dei potenti del mondo, che spesso ignorano l’impatto di ogni loro decisione sul dolore della povera gente. Insomma faccia quello che praticamente ha già fatto con “Assedio” la sua recentissima opera teatrale con cui, con immagini girate durante l’isolamento di Mosul e accompagnate dalla sua voce, ha portato a teatro l’odissea della città irachena.

L’unicità di Mosul – anche qui, dei civili intrappolati dentro – è consistita nel suo essere due volte sotto assedio. Per mano dell’ISIS, che dal giugno 2014 aveva imposto alla seconda città dell’Iraq il peggiore dei regimi totalitari, ma anche per mano della coalizione a guida statunitense, che per liberare Mosul l’ha dovuta ridurre in macerie. La maggior parte delle vittime civili a Mosul l’hanno determinata le bombe per liberarla, non la furia cieca dello stato islamico. Il risultato – che con il sodalizio straordinario del linguaggio universale che ha la musica e la potenza irraggiungibile delle immagini– è stato un affresco, Assedio appunto, che ha superato il qui e ora di quel conflitto, provando a rappresentare tutti gli assedi, tutti i conflitti dell’umanità. Nel primo di quei miei testi, racconto di una donna che è a un passo dalla salvezza. I soldati iracheni giunti per liberarla sono a poche decine di metri da lei, da noi. Ma lei è stremata. E dunque chiede – mi chiede, io sono la prima occidentale che quella donna vede dopo anni passati con l’ISIS! – dove sia un ospedale, perché altrimenti suo figlio – un fagottino che tiene in braccio, apparentemente senza vita – lei lo abbandonerà là. A pochi metri da una salvezza rincorsa per anni,  quella donna non ha più la forza, la voglia, di salvare il suo bambino. Ho ritrovato la stessa scena, lo stesso piano sequenza di immagini, nella prima pagina di un libro bellissimo che sto leggendo, Il bambino nella neve di Wlodek Goldkorn. In un passo che descrive la Shoah.

A una donna impegnata come lei, è concesso di essere moglie/mamma, o questo è uno dei tanti sacrifici che una giornalista inviata in una delle zone di guerra più pericolose del globo è costretta a fare sull’altare dell’informazione?

Non ho avuto figli, ma ho una fantasmagoria di nipoti, che sono tutti i personaggi incontrati in questa vita, che non cambierei con nessun’altra. E un nipote vero, che ha un anno e mezzo e che adoro, anche perché l’ultima volta che mi sono accomiatata da lui mi ha guardato e salutato come qualcuno la cui presenza – e mancanza – sta imparando a mettere a fuoco. Si chiama Leonardo e forse è l’uomo che riuscirà a fermarmi, chissà.

Matilde Serao scriveva di donne e per le donne senza mai essere, non volle mai esserlo, femminista: lei come si pone davanti a questa problematica che sembra appartenere più ai Paesi dell’Ovest del mondo? Secondo la sua esperienza non è qualcosa di demodé o comunque di eccessivamente amplificato?

Se vi sono latitudini nelle quali la battaglia di genere ha ancora un senso – perché finisce per non essere tale, per essere battaglia universale per i diritti – sono i mondi che io frequento. Nel mondo musulmano la donna ha una carica sovversiva – nel senso di sovvertire l’ordine costituito e ritagliato a misura d’uomo – che altrove non ha più. La battaglia per i diritti delle donne è una battaglia politica. Purtroppo il nostro sguardo riempie spesso questa battaglia di stereotipi, come l’eterno, vuoto interrogativo sul velo. Continuo a preferire una donna velata ma istruita a un’ignorante con i boccoli.

Lucia Goracci

Ecco parte del Goracci-pensiero, ecco ciò che ci ha detto la giornalista con le «ballerine di Erdogan» come lei stessa ha simpaticamente definito le comode scarpe comprate per un’intervista al presidente-dittatore turco Recep Tayyip Erdoğan e che indossava… ieri sera. Ringraziamo cordialmente la dottoressa Lucia Goracci per la sua disponibilità e affabilità, è proprio vero che spesso i più grandi sono anche i più cortesi e i più umili, un altro nome che insieme a quello delle illustri colleghe che l’hanno preceduta contribuisce a far grande questo Premio Giornalistico carinolese.

Albo d’oro Premio Giornalistico Matilde Serao

* in foto Lucia Goracci tra il direttore de Il Mattino Alessandro Barbano e il dirigente di Poste Italiane Giuseppe Lasco 

Lascia un commento