«Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole,
vedendo la casa astrale della vergine,
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto,
Ipazia sacra, bellezza delle parole,
astro incontaminato della sapiente cultura.» (Pallada, Antologia Palatina, IX, 400)
Alessandria d’Egitto, prima metà del V sec. d.C.: fulcro della sapienza del mondo antico, principale centro neoplatonico – insieme ad Atene – in grado di garantire la continuità degli antichi riti, oltre che teatro di fanatismi e di intolleranze sistematiche e reciproche. In un rissoso clima di lotte religiose fra ebrei, cristiani e pagani aderenti al culto di Serapide, brilla la figura di Ipazia, «…figlia del filosofo Teone, che ottenne tali successi nella letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Provenendo dalla scuola di Platone e di Plotino, lei spiegò i principi della filosofia ai suoi uditori, molti dei quali venivano da lontano per ascoltare le sue lezioni.» (Socrate Scolastico, Historia Ecclesiastica). Benchè celebrata dal mondo della cultura a lei contemporaneo, i suoi scritti non giungeranno sino a noi. Le fonti antiche ci informano del suo pubblico insegnamento tenuto verso chiunque volesse ascoltarla: un gesto di grande audacia e sfida verso un mondo culturalmente maschile; «…così la donna, indossando il mantello dei filosofi nel percorrere le strade in mezzo alla città, era solita spiegare pubblicamente a coloro che desiderassero ascoltare Platone o Aristotele o qualunque altro dei filosofi. Giunta al colmo della virtù pratica riguardo all’insegnamento, diventata anche giusta e saggia, rimaneva vergine, pur essendo così grandemente bella ed avvenente» (Suda, voce Hypatia).
Tuttavia, quando Ipazia inizia il suo insegnamento, nell’ultimo decennio del IV secolo, ad Alessandria sono stati appena demoliti i templi dell’antica religione, per volere dell’imperatore cristiano Teodosio, una demolizione che simboleggia la volontà di distruzione di una cultura alla quale anche Ipazia appartiene e che ella è intenzionata a difendere e a diffondere. Siamo nel 391 quando il patriarca cristiano di Alessandria, Teofilo, assedia il Serapeion, tempio consacrato a Serapide e biblioteca minore di Alessandria, a capo di una folla inferocita ed eccitata dal fanatismo religioso; l’edificio è demolito pietra per pietra e i suoi 42.800 rotoli persi per sempre, cancellati da un Cristianesimo che ai suoi albori fa dell’intolleranza il suo principio cardine. Increscioso doverlo riconoscere, ma la presunzione e l’arroganza dottrinali del Cristianesimo delle origini finirono per comportare un sistema totalmente oppressivo e liberticida sul piano pratico, polverizzando e rendendoci inconoscibile per sempre ogni traccia della sapienza antica che trovasse sulla propria strada e trasformando in un delitto passibile di morte il continuare a seguire la religione dei padri. Il clima sociale di Alessandria d’Egitto era, dunque, a cavallo tra IV e V secolo, molto instabile; il vescovo Cirillo, nipote e successore di Teofilo, rappresentava il massimo potere ecclesiastico, mentre Ipazia era il fulcro della cultura. Ma il vescovo cristiano doveva avere il monopolio della parrhesìa, la ‘libertà di parola e di azione’, proponendo un sillogismo molto chiaro: se nella fase di passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo i compiti del filosofo e del vescovo vengono a sovrapporsi, che cosa fa il vescovo, se non eliminare il filosofo? Così, si accusava pretestuosamente Ipazia di essere l’istigatrice delle stragi dei Giudei contro i Cristiani.
La sua fine nel marzo del 415 fu terribile: «Ella fu fatta a pezzi dagli Alessandrini ed il suo corpo, dopo essere stato vilipeso, fu disperso, a pezzi, per tutta la città». Su questo fatto tutte le fonti sono sostanzialmente concordi. Socrate Scolastico ci fornisce qualche dettaglio in più: un gruppo di cristiani fanatici, guidati dal lettore Pietro, fatta una congiura, appostò la filosofa mentre ritornava a casa, la tirò giù dalla lettiga, la trascinò nella chiesa denominata Cesareion e in quel luogo la denudò ed uccise brutalmente scorticandola con degli ostrakois, letteralmente ‘gusci di ostriche’, ma il termine era usato anche per indicare tegole o cocci; il corpo, in seguito, fu tagliato a pezzi che, ancora sanguinanti furono portati in un luogo detto Cinarion, dove furono bruciati. «Tale fatto comportò una non piccola ignominia sia a Cirillo sia alla Chiesa alessandrina.» L’inchiesta per l’uccisione di Ipazia si risolse con un nulla di fatto: l’imperatore, al tempo Teodosio II, considerò la vicenda nel suo intero complesso e, quindi, fu favorevole a Cirillo. Soltanto cento anni dopo i fatti, il filosofo Damascio individuerà nell’invidia di Cirillo – in seguito dichiarato Santo e Dottore della Chiesa, celebrato proprio oggi 27 giugno – per l’autorevolezza di Ipazia, la ragione del linciaggio da lui stesso organizzato e ordinato.
«Loro vogliono tenerci in casa. Loro vogliono il campo libero. Niente. Niente testimoni. Strano Dio che ha paura delle parole. Che odia i libri. Strano Dio davvero. Ma è il Dio che loro vogliono dipingere quello che fa paura. La proiezione delle loro paure. Non è Dio. Perché Dio o gli dèi li puoi chiamare in mille modi, ma se sono davvero lassù, dietro le stelle, e sono loro che regolano tutto, perché dovrebbero avere paura? E di cosa? Di noi? La paura e la violenza appartengono all’uomo, a Dio, se c’è, appartiene l’amore.» (M. Vincenzi, Il sogno di Ipazia)
Adele Migliozzi