Sabato 27 maggio 2017 a Capua (ore 10.30, davanti alla Chiesa di San Salvatore a Corte) cerimonia d’inaugurazione del cippo commemorativo del PLACITO CAPUANO, primo documento scritto della Lingua Italiana, un embrione dell’italico idioma, risalente al marzo del 960. Queste le parole che vi saranno impresse: “Un giuramento di tre testimoni… che portarono alla luce della Storia la Lingua di ascendenza latina parlata in questo lembo d’Italia promessa per la futura lingua italiana”. Alla cerimonia parteciperanno i ragazzi delle scuole primarie e gli studenti delle scuole secondarie, con il quale si riconoscerà ufficialmente “CAPUA CITTÀ DELLA LINGUA“.
A rendere viepiù solenne la cerimonia, curata dai Volontari del Touring Club Italiano, sarà la presenza dell’Accademia della Crusca rappresentata dal Presidente onorario il professor Francesco Sabatini (volto noto della trasmissione di RAI 1 Uno Mattina In Famiglia) e il Presidente professor Claudio Marazzini.
Qual è la storia di questo documento vergato presso il Palazzo dei Principi Longobardi dal giudice della città di Capua, Arechisi, e che riportava queste parole che costituivano il giuramento di tre testimoni «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti»?
Innanzitutto partiamo dall’antefatto: l’Abbazia di Montecassino, fondata qualche secolo prima da San Benedetto da Norcia, oltre ad essere un luogo santo, un faro di cultura e uno scrigno di tesori, non faceva della cura delle anime, della preghiera contempltiva e della conservazione di antichi manoscritti le sue uniche occupazioni, ma era anche la più grande “fattoria” del circondario e i suoi quasi sconfinati possedimenti terrieri oltre a dare grande potere ai monaci, diversi furono i Papi provenienti da qui, dava anche dei grattacapi dal punto di vista, diciamo così, burocratico.
Un giorno Aligerno, abate di Montecassino, dovette rispondere alle contestazioni di un privato cittadino di nome Rodelgrimo, nato ad Aquino. Costui, muovendo causa contro l’Abbazia, produsse una memoria con cui attestava il possesso di alcuni terreni, a lui spettanti per eredità diretta e di altri parenti, di cui però si era, secondo lui, fraudolentemente impossessata l’amministrazione di Montecassino: a questo punto chiedeva che fosse un giudice, nella fattispecie Arechisi, giudice come detto giudice della città di Capua, a dirimere la questione una volta per tutte e secondo la legge. L’abate Aligerno in sua difesa affermò che quei possedimenti erano in possesso già da trent’anni, e per dimostrarlo era in grado di produrre testimoni, secondo quanto previsto dalla legge: così Teodemondo, diacono e monaco, Mari, chierico e monaco, e Gariberto, chierico e notaio resero questa deposizione giurata…
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti
Visto che Rodelgrimo, sollecitato dal giudice Arechisi, non riuscì a fornir prova documentale dei suoi possedimenti in aggiunta alla già prodotta memoria difensiva, e siccome le parole «So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni le ha tenute in possesso l’amministrazione patrimoniale di S. Benedetto» furono riconfermate dai testi alcuni giorni dopo dai testimoni dell’abate Aligerno, il giudice Arechisi ordinò al notaio Adenolfo di trascriverle e di metterle agli atti del processo.
A quel punto Rodelgrimo decise di recedere dalle sue intenzioni e ricevette in cambio per launegildo (un istituto giuridico del diritto longobardo), un mantello, sotto la precisa condizione che ove mai egli stesso o i suoi eredi avessero in futuro messo in discussione questa rinuncia, sarebbero stati obbligati a pagare all’abate o ai suoi successori e all’amministrazione patrimoniale dell’abbazia di Montecassino la penale di cento soldi bizantini, e comunque tale sentenza sarebbe rimasta immutabile.
Questo è solo uno, il più antico, dei cosiddetti Placiti Cassinesi che rappresentano esempi via via più frequenti della necessità di parlare e aprirsi a un numero sempre più ampio di potenziali ascoltatori, e il fatto che siano notai, chierici e in genere ecclesiastici e giuristi a usare e a mettere su carta questi primi esempi di volgare è sintomatico della necessità che si avvertiva. Da allora il Latino, la lingua nobile e ufficialmente usata dal Clero per atti e Sacre Scritture e dall’intellighenzia in atti ufficiali e giuridici ma raramente compresa dal popolo, viene sempre di più soppiantata dal Volgare (dal latino vulgus=popolo).
È da allora che lentamente, faticosamente la Lingua Italiana comincia sempre più ad affermarsi, grazie ai preclari esempi di Dante Alighieri, Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca, ma anche grazie ad umanisti come il cardinale veneziano Pietro Bembo o il conterraneo Aldo Manuzio. L’ostacolo maggiore la diffusione dell’Italiano lo trova nella mancanza di unità politica dell’Italia, entità ancora in effetti inesistente tanto che non è azzardato parlare semplicemente di Penisola Italica per definire la terra dei nostri avi, e di questo letterati come Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi se ne lamentarono spesso: ma tant’è, purtroppo di questa mancanza di coesione paghiamo lo scotto anche in termini sociali.
Celebriamole queste occasioni, non sono tantissime, ma è giusto ricordarle visto che fanno parte di noi anche se spesso lo ignoriamo o, peggio ancora, lo dimentichiamo.
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