L’afa di quel Luglio del 1959 era insopportabile e, nonostante il boom economico imperversasse un po’ ovunque lungo lo stivale, a Casale non ancora era arrivato.
C’era ancora la miseria, una miseria vera, materiale, e quindi le spiagge e il mare erano solo sogni, sogni che restavano chiusi in un cassetto del quale non avevamo nemmeno le chiavi. La realtà era ben diversa, intere giornate, sotto un sole cocente in una campagna arsa, aspettando la sera.
Eppure, nonostante tutto, c’era in quel periodo un qualcosa di diverso nell’aria, un tremolio, che piano piano prese ed invase tutto il corpo.
La mia era una famiglia di contadini, come la maggior parte. Avevamo un piccolo appezzamento di terra sulle Prieci che a stento ci forniva quel poco di grano per la farina ed un po’ di legumi, una piccola vigna e qualche albero di mele annurche. Mio nonno e mio padre lavorano a giornata, tempo permettendo, e portavano a casa quello che bastava, non sempre, per provare a tirare avanti la settimana. Io, mia mamma e mia nonna badavano alla casa e agli animali del cortile.
Non avevamo l’auto, né la televisione, né la lavatrice, né i tanti infernali strumenti che oggi abbondano. Mia nonna aveva un orecchino, uno solo.
Papà e nonno avevano lavorato al cantiere ACLI, il cantiere organizzato dal parroco Struffi, che riportò alla luce la piccola chiesetta di Santa Maria e successivamente consentì il ritrovamento dell’immagine della Vergine, donando all’intera comunità un luogo di preghiera e di serenità, divenuto in breve tempo punto di riferimento per i tanti, casalesi e non, in cerca di un po’ di quiete. Mia nonna passava il suo poco tempo libero presso la cappella, ne curava l’aspetto, sostituiva i fiori vecchi con i nuovi, spesso raccolti lungo la strada e accendeva qualche lumino presso il vecchio cimitero. Era un bel legame quello che le due mamme avevano instaurato. In tutto questo, il 1959 termina e si entra nei magnifici anni ’60. Papà e nonno, nel frattempo, avevano ceduto alle lusinghe della grande consolatrice e tutto era diventato ancora più difficile, più cupo.
In una fresca mattina di aprile, Leone, il nostro cane da guardia iniziò ad abbaiare forte, sempre più forte, ma Leone, come tutti i cani che abbaiano non mordeva, anzi era un fifone, bastava un rumore un po’ più forte per farlo scappare e rintanarsi sotto il vecchio letto di nonno, anche ora che lui non c’era più. Con non poca fatica, nonna esce nel cortile di casa, alcune voci si avvicinavano. Erano alcuni paesani che chiedevano “qualcosa”; non sapendo bene cosa, prende due uova per offrirle.
“Rusariè, nun semmu venuti pe chestu, ce serve caccosa pe la Maronna, sanna fa le curuni“, fu questa la richiesta che si sentì rivolgere. Rimase ferma, sulla umile soglia di una cucina annerita dal fumo, le mani tremanti, non seppe rispondere. Si guardarono tutti negli occhi, lasciarono mia nonna da sola con le uova tra le mani.
La primavera era esplosa in tutto il suo smagliante colore e profumo, campi di grano verde, i ciliegi in fiore, ma qualcosa a casa nostra era cambiato. Dal giorno della visita di quei signori, mia nonna non era stata più la stessa. Era triste e non ne capivo il perché. Pensava forse al nonno che non c’era più? Alla campagna che oramai eravamo stati costretti ad abbandonare? Oppure a quella miseria che ci attanagliava sempre di più? La verità era diversa, fu mia mamma a raccontarmela.
Era la mortificazione, che aveva colpito – come un’improvvisa e letale malattia – la mia povera e vecchia nonna: la mortificazione di non aver potuto offrire altro che due umili uova, per le corone della sua “amica” celeste.
Intanto si continuava a girava per le strade del paese e per le masserie sparse un po’ ovunque. Dal borgo Fava a quello Migliozzi, fino al confine nord del paese, nel rione Vignai, la raccolta di oro per le corone della Madonna continuava senza sosta. Era ormai giunto maggio, e nell’orto di casa, il ciliegio piantato da mio nonno qualche annio prima, iniziava a regalare i primi dolci frutti. Ne raccolgo alcuni e li indosso a mo’ di orecchini e così conciato corro da mia nonna per farglieli assaggiare. Appena entrato in cucina, lo sguardo di mia monna è come una fucilata: cercavo di capire di quale colpa, io a 10 anni, potevo essere incolpato. In realtà nonna non guardava me, ma guardava nel vuoto, presa come da un’estasi.
Esce dalla cucina e con un’andatura traballante sale le scale, che la conducono nella camera da letto; pochi minuti dopo, con le lacrime agli occhi ridiscende.
Ha in mano un orecchino, uno solo.
Siamo oramai al 7 agosto 1960, mia nonna è volata in cielo poco prima, ma qualcosa di lei vive ancora. Un piccolo pezzetto di oro da meno di un grammo.
[Fine]