Nicola Napolitano, poeta della terra

Il 26 novembre del 2003, all’età di quasi novant’anni (li avrebbe compiuti il 17 di gennaio) il “preside-poeta” Nicola Napolitano ci lasciava. E con lui se ne andava un pezzo di storia della poesia del Novecento: insieme alla sua faccia minuta e cotta dal sole, alla stretta di mano che l’uomo onesto ti porgeva, così come lo dipingo nella mia mente, dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto.

In una sorta di “Olimpo” immaginario di personaggi che hanno fatto la storia, culturale e non solo, di Casale, collocherei senza dubbio nella triade dei “grandi” proprio lui, Nicola Napolitano, che ho avuto modo di approfondire con la dedizione che merita solo nell’ultimo anno, ma che mi è entrato subito nel cuore, per il suo modo di disseminare in ogni verso un senso di attaccamento alle origini che più profondo non potrebbe essere. Uno scrittore dalle mani perennemente “sporche di terra”: così mi piace definirlo, nell’accezione più nobile del termine, nel senso di “profonda lealtà alla sua storia”. I suoi testi sono stati per me una miniera di termini dialettali legati al mondo dei campi, agli antichi mestieri, ai giochi di una volta: «Ascia, martiegliu, sea e menarola / piallettu, sgroglia, raspa e ‘nu mazzuolu, / tanta scarpiegli de tutte le mmesure, / stritti ‘nturzati ‘nsiem’a la mmappata». La sua è una poesia “contadina”; ecco perché amava dire: «Chi è nato contadino lo rimane per tutta la vita, qualunque sia poi l’attività che svolge». Un sostrato agreste sempre vibrante in lui e mai sopito, espresso compiutamente nella raccolta di proverbi e modi di dire del dialetto casalese, da lui edita nel 1993. Un uomo di cultura intriso della limpidezza del bel villaggio che doveva essere il Casale di una volta, che spesso tento di figurarmi nella fantasia, come se ci fossi anch’io. «Capivo, contadino-agricoltore, la tua speranza di evadere, o almeno, di fare evadere i figli. Ti pesava non tanto la fatica, quasi sempre mal retribuita, quanto ti pesava e ti umiliava e ti opprimeva il disprezzo delle persone che non lavoravano la terra, che non si dovevano sporcare con la terra. Dovunque andavi, comunque ti muovevi, ti sentivi addosso il disprezzo ostentato da chi non si doveva sporcare con la terra. I più poveri le studiavano tutte e si sacrificavano, pur di far arruolare i figli nei carabinieri, nelle guardie di finanze, nelle guardie regie, che poi furono soppresse dal fascismo. Soffrivo molto quel disprezzo e anch’io accettai di evadere (l’iniziativa fu presa da mia madre e dalle mie sorelle). Ma dopo tanti anni consumati sui libri e sulle scartoffie, tornai alla terra come ad una madre affettuosa, la quale era rimasta ad attendermi alla curva di un approdo. Tornai ad accarezzare con una più convinta riconoscenza le tenere foglie delle viti, il verde dei prati, le bionde spighe del grano».

Napolitano
Nicola Napolitano

Nicola Napolitano: “Casale d’altri tempi”…

Non voglio qui dilungarmi in uno scritto “accademico” e in uno sterile elenco di opere: quel che per me conta è omaggiare il suo ricordo. Diciotto le pubblicazioni a suo nome, centinaia le presenze in numerosissime riviste letterarie di mezzo mondo; la critica più attenta ha seguito l’opera letteraria del nostro poeta, tanto che le sue opere sono state tradotte e pubblicate anche in Brasile, Stati Uniti, Francia, Grecia, Romania e Svizzera, e sono state oggetto di tesi di laurea. Il tutto nell’umiltà più sentita; scrive di lui il figlio, Giuseppe Napolitano: «C’è in provincia un lavoratore della parola che ha fatto davvero della sua arte una missione privata, un messaggio da eremita, per decenni, senza scomodare i santuari della pubblicità, senza voler diventare altro da sé, per piacere di più». Due sono i temi prevalenti della sua poetica: la guerra, la prigionia, le campagne d’Africa e di Grecia, la deportazione in Germania; il suo paesello Casale, dove era nato nel 1914, la sua famiglia di agricoltori, la sua terra, che aveva lavorato fino a ventidue anni, prima di laurearsi in lettere a Roma. Nicola Napolitano è stato un poeta vero, legato alla sua origine contadina, ispirato dalla terra natia del Sud, dal proprio vissuto; un uomo e un insegnante semplice e onesto, fedele a se stesso, ai propri ideali e valori: «Casale d’altri tempi: / più dolce è ricordare, / paese mio lontano, / il verde dei tuoi prati a primavera». Emblematica del suo amore estremo per Casale è la sua ultima poesia, edita postuma, scritta quando era quasi paralizzato:

«Non vedrò più Casale (…).

Vi passai la fanciullezza; giocavo, scavando grotticelle nelle pareti della via.

Vi passai la tempesta giovinezza. Lavoravo in campagna: stroncate le speranze.

Buio. Poi altre speranze si riaccesero.

Passò la guerra, fu nuova luce: gli studi, la laurea, l’insegnamento.

Non vedrò più Mondragone, non vedrò più Roccamonfina.

Tutto è passato. Ho pietà di me stesso».

Immaginiamolo mentre, dal balcone della sua casa di Formia, osservava il Monte Massico e nella memoria ricordava la sua vita: quel monte, proprio come la siepe leopardiana, pur impedendogli la vista del suo luogo natìo, veicolava il suo spaziare nel mondo degli affetti più autentici.  

Adele Migliozzi

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