20.09.1870: Roma capitale d’Italia

La breccia di Porta Pia – Con questo episodio si compie effettivamente l’Unità d’Italia così come noi oggi la conosciamo. A nove anni dalla morte di Camillo Benso conte di Cavour, cioè di colui che la Storia Risorgimentale ci ha sempre presentato come il “fine tessitore” dell’Unità Italiana ma che in realtà quest’Unità non voleva proprio, Roma – capitale di ciò che rimaneva dello Stato Pontificio – restava ormai l’ultimo tassello per completare l’effettiva unità territoriale italiana. Questo fu ufficialmente l’ultimo episodio del Risorgimento, anche se in realtà furono i trattati successivi alla I Guerra Mondiale a stabilire la superficie del territorio italiano, e per portarlo a termine bisognava abbattere la resistenza del Papa che, basandosi sulla falsa Donazione di Costantino, continuava ad occuparsi anche del potere temporale oltre che di quello, più che legittimo, spirituale.

Gli antefatti sono tanti e sarebbe oltremodo lungo esaminarli tutti, basti solo dire che il governo sabaudo manteneva il solito atteggiamento poco chiaro caratteristico di quasi tutto il Risorgimento, i garibaldini spingevano perché Roma divenisse capitale d’Italia, e del resto avevano già provato a conquistarla tre anni prima anche se furono respinti nella battaglia di Mentana, comunque approfittando dell’assenza del contingente francese, anche Napoleone III aveva i suoi problemi interni, il 17 settembre il generale Cadorna entrò nel territorio pontificio e puntò direttamente su Roma. Alle 5 di mattina del 20 settembre aprì il fuoco contro le mura della città e appena cinque ore dopo la breccia nelle mura aureliane era aperta e i bersaglieri entrarono. Alle due del pomeriggio il generale Kanzler, capo delle truppe pontificie, firmò la resa.

Lo Stato Italiano fin da subito volle salvaguardare la persona “sacra e inviolabile” del Papa, e nella fattispecie di Pio IX che da quel momento si considerò prigioniero dello Stato Italiano, tant’è vero che pochi mesi dopo fu emanata dal Parlamento  la legge 13 maggio 1871, cosiddetta Legge delle Guarentigie, che sottolineava le prerogative del Pontefice e codificava le relazioni fra lo Stato italiano e la Santa Sede. Tale legge si fondava su due premesse: l’estinzione dello Stato Pontificio, visto che si estendeva la sovranità italiana anche ai palazzi apostolici, e la natura unilaterale dei provvedimenti con i quali lo Stato Italiano regolava la materia.

La legge instaurava un sistema di immunità di persone e cose, e impegnava lo Stato a garantire alla Chiesa il libero esercizio della sua attività spirituale. I capisaldi del sistema erano: la parificazione del Pontefice al Sovrano per ciò che riguardava la tutela penale, il riconoscimento al Pontefice della piena libertà di compiere tutti gli atti inerenti al suo ministero, il riconoscimento del diritto di legazione attiva e passiva, la garanzia della libertà di corrispondenza, la garanzia della piena libertà di circolazione dei cardinali in occasione di conclavi e di concili ecumenici. Al Pontefice era inoltre garantita la rendita annua di 3.225.000 lire (quella in pratica già iscritta nel bilancio di Roma per i bisogni della Santa Sede), gli era attribuito il godimento dei palazzi apostolici Vaticano e Lateranense e della villa di Castel Gandolfo; veniva garantito il non intervento della forza pubblica nei luoghi di abituale residenza o dimora del pontefice e nei luoghi ove fosse riunito un conclave o un concilio senza espressa richiesta; veniva garantita infine alla Santa Sede ogni attribuzione relativa ai seminari e scuole per la cultura degli ecclesiastici.

La legge rimase formalmente in vigore sino al concordato del febbraio 1929: essa non venne però mai accettata dalla Santa Sede, che, sin dai giorni immediatamente successivi all’emanazione (enciclica Ubi nos del 15 maggio 1871), ne rifiutò la validità e mai accettò la dotazione disposta dalla legge stessa.
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