Quando si parla del concetto di “dialetto” la prima connessione che viene in mente, nel contesto odierno e completamente cambiato, è «storpiatura della lingua italiana». In realtà non è così. Il dialetto è cultura, è modo di pensare, di essere, è un mezzo di identificazione e di distinzione in questa società globalizzata. L’amplificazione dei mezzi di comunicazione, come pure l’introduzione di strumenti che permettono di allargare il range d’informazione consente all’uomo di divenire cittadino di un “villaggio globale” ed elevare la propria conoscenza senza dover ricorrere a necessaria esperienza. Questo non è certamente un inno contro la globalizzazione, ma qui si vuole incitare e soprattutto invogliare l’uomo a ricercare le proprie origini e tradizioni.
Un chiaro segno della nostra memoria è proprio il dialetto casalese. I proverbi e i modi di dire, tramandati dalla nostra collettività di generazione in generazione, sono delle massime che rappresentano una “forma mentis” d’altri tempi (che però hanno ancora estrema valenza e importanza). Alcuni di loro fanno rimando (in maniera indiretta) a concetti letterali e filosofici celebri: è un chiaro esempio, sta a mostrare come i figli, il più delle volte tendono a seguire il modo di essere e di pensare dei genitori (un concetto simile è stato già trattato dal celebre Carl Gustav Jung per quanto riguarda la psicanalisi infantile nei primi anni del ‘900); oppure «A ciagne ri muorti, su lacreme perze» (A piangere i morti, sono lacrime perse) (lo aveva già capito il lirico greco Alceo, venticinque secoli fa, quando scrisse in un suo frammento: “Nulla guadagni a piangere sui mali”).
Sta di fatto che questo invito, già prima di noi oggi, è già stato inoltrato anni fa da uno dei cittadini più illustri del nostro paese, il celebre poeta Nicola Napolitano, il quale ha analizzato e commentato in uno dei suoi scritti gran parte dei nostri proverbi. Aveva ragione quando collegava il detto «Ri pruerbi antichi nun falliscunu» (I proverbi antichi non falliscono) con il modo di dire «Oce te populu, oce te Diu», perché questi in fondo sono i segni che ci contraddistinguo e ci rendono unici. Ancora oggi, alla domanda “da dove vieni?” io rispondo con onore che provengo da Casale di Carinola: quest’onore è il frutto di una vita vissuta li, di una cultura, e dunque, di un dialetto che mi hanno formato.
«Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi/ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi./Una bimba canta la canzone antica della donnaccia/quel che ancor non sai tu lo imparerai solo qui tra le mie braccia.» Con queste parole, provenienti dalla canzone “Città vecchia” di Fabrizio De Andrè, voglio concludere questo discorso portando con me il ricordo del mio paese con questa strofa piena di vita, e auguro a tutti voi di avere maggior voglia di conoscere Casale di Carinola, con le sue bellezze uniche e pittoresche… e anche con le sue meno apprezzate nefandezze.
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Pasquale Fava
One thought on “Casale… rimembri ancora”
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