Ventitré anni fa l’assassinio di Giovanni Falcone e, tra altri due mesi, di Paolo Borsellino. Due uomini forse diversi tra loro per cultura e forse anche per temperamento, anche se la pervicacia e l’ostinazione con cui hanno perseguito certi obiettivi li fa assomigliare parecchio, tant’è vero che il loro destino è inscindibilmente legato nella vita e nella morte, la loro atroce morte.
Entrambi figure dalla forte personalità, furono consapevoli del proprio valore, con quella consapevolezza propria delle persone intelligenti, ma proprio perciò mai furono tronfi e pieni di sé tanto da voler issarsi a personaggi, nonostante a parlare in loro vece fossero i fatti e non le parole (non erano i soliti “professionisti dell’antimafia”): ma, purtroppo, lo strisciante, e spesso anche palese, ostracismo di tanti colleghi e pseudo-amici magistrati, condusse ad accusarli anche di quello.
Giovanni Falcone era nato a Palermo nel 1937 e si era laureato in giurisprudenza, cominciando ad esercitare nel 1964, per assumere l’ufficio di procuratore aggiunto alla procura della repubblica a Palermo fino al 1991. Fulcro del suo operato erano molte indagini contro la criminalità mafiosa convinto com’era che la mafia fosse fenomeno destinato a scomparire. Magistrato di Cassazione divenendo direttore generale degli affari penali al ministero di grazia e giustizia, fu collocato però fuori organico della magistratura stessa.
Fu anche autore di un libro (Cose di cosa nostra, del 1991) scritto con la giornalista francese Marcelle Padovani.
Fu ucciso presso il quinto Km dell’autostrada A29, vicino allo svincolo di Capaci a pochi chilometri da Palermo, in uno dei più clamorosi attentati che la storia ricordi, forse il più clamoroso visto che in Sicilia per ricordarlo lo si chiama semplicemente attintatuni, il grande attentato, l’attentato per antonomasia. Vi persero la vita anche sua moglie Francesca Morvillo, magistrato a sua volta, e tre agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
«La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.» (G. Falcone)
Nemmeno due mesi dopo, il 19 luglio, analogo destino ebbe, come detto, Paolo Borsellino, quasi coetaneo di Giovanni Falcone, anch’egli nato a Palermo ma nel 1938. Entrò nel 1980, con Falcone (erano già legati dagli studi universitari), nell’Ufficio istruzione della Procura palermitana e da lì partì la loro lotta contro le cosche mafiose. L’esperienza comune condusse i due magistrati alla realizzazione del famoso pool antimafia che portò al maxiprocesso contro la Cupola. Nel 1987 Borsellino assunse la direzione della Procura di Marsala, arrivando allo smantellamento delle associazioni mafiose locali. La sua intesa con Falcone, nonostante i diversi percorsi intrapresi, ne fece il candidato ideale alla successione nell’incarico a livello nazionale (la superprocura) che il magistrato stava per assumere quando fu ucciso. Due mesi dopo, il 19 luglio, lo stesso Borsellino, con la sua scorta formata dai cinque agenti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina (l’unico a sopravvivere fu Antonino Vullo), morì in un agguato in via Amelio, sotto casa della madre.
«Io accetto la… ho sempre accettato il… più che il rischio, la… condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli […] so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me.
E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare… dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro.» (P. Borsellino)
Falcone e Borsellino: uomini che pur nella contezza di dover rinunciare a molto del proprio privato, mai hanno conosciuto la rassegnazione. Uomini convinti del fatto che bisognasse esporsi in prima persona per cercare di salvaguardare la vita quotidiana della gente comune, hanno dato tutto se stessi, e non certo metaforicamente, a questo “senso dello Stato”. Borsellino e Falcone rappresentano gli ultimi epigoni di quel “civismo” cui tutti dovremmo ispirarci. Non cultori della propria personalità e quindi quasi boriosi, ma uomini “normali” che hanno sacrificato il piacere di una vita normale per restituire fiducia e tranquillità al consesso civile.