10 giugno 1924-10 giugno 2024: a un secolo esatto dal rapimento e l’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti, forse il crimine più noto del Fascismo ma non certo l’unico purtroppo, crimine che mostrò al mondo intero il vero volto di questo movimento populista e squadrista che intendeva uccidere tutte le libertà e reprimere ogni voce di dissenso, cerchiamo di ricostruire il fatto ma soprattutto l’atmosfera che ha portato a questa agghiacciante conclusione.
Era passato un anno e mezzo dalla Marcia su Roma e poco meno da quel tristemente famoso 16 novembre 1922 in cui Benito Mussolini alla Camera dei Deputati, per rivendicare la scelta di governare non con un monocolore fascista che sarebbe sembrato troppo smaccatamente dittatoriale bensì con pochi ministri a lui fedeli mescolati con altri provenienti da diversi partiti dell’Arco Costituzionale, pronunciò il famigerato “discorso del bivacco”: «Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto». Ecco, secondo la contorta mentalità fascista quel tempo era arrivato: le nuove elezioni erano state fissate per il 6 aprile 1924 e la XXVII legislatura sarebbe stata inaugurata il 24 maggio. Ma questa sarebbe stata l’ultima volta perché Mussolini soleva dire «La prossima voterò io per tutti»!
Giacomo Matteotti, sposa fin dalla gioventù la causa dei contadini del Polesine, tra i più poveri d’Italia: colto, battagliero, intransigente, eletto in Parlamento nel dicembre del 1919 e odiato dai membri della sua classe che lo soprannominano il “Socialista impellicciato”. Matteotti era segretario del Partito Socialista Unitario e secondo lui bisognava indurirsi sempre di più, inasprirsi, scavare un solco tra maggioranza e opposizione, tra fascisti meritevoli solo di disprezzo e socialisti, tra socialisti puri e collaborazionisti, un solco che nessuno avrebbe osato o potuto valicare: pubblicò il libro “Contro il fascismo. Un anno di dominazione fascista” in cui elencava in modo certosino le violenze commesse dal regime, e in special modo soprusi e delitti perpetrati dagli squadristi nelle province, mentre Mussolini a Roma si accreditava come Padre della Patria.
In più di quattro anni di mandato Giacomo Matteotti aveva già pronunciato ben 106 discorsi, lunghi, minuziosi, spesso incentrati su questioni di Finanza e Bilancio e quindi poco attrattivi e difficili da capire per i non addetti ai lavori, non certo per lui che ne era esperto: l’ultimo, quello del 30 maggio 1924, in cui sostanzialmente accusava il fascismo di non avere ottenuto i voti che lo sostenevano liberamente e democraticamente ma solo grazie alle intimidazioni di una milizia armata, gli fu fatale, anche perché le sue continue elencazioni di angherie, minacce e ogni genere di violenza fascista non facevano altro che far aumentare la rabbia dei 370 deputati fascisti che continuamente gli gridavano contro e lo minacciavano (c’è da dire che la nuova legge Acerbo aveva garantito uno scandaloso Premio di Maggioranza alla lista che avrebbe ottenuto appena il 25% dei consensi!). Matteotti si rende conto di averli provocati sbattendo loro la verità in faccia e infatti una volta sedutosi disse ai suoi compagni di partito «Il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparatemi l’orazione funebre»: le reazioni andavano da un più che esplicito «Con avversari come Matteotti non si può che lasciare la parola alla rivoltella», a un forse più diplomatico ma ugualmente crudo commento del Popolo d’Italia, il giornale di Mussolini, che definiva il discorso di Matteotti «Mostruosamente provocatorio che avrebbe meritato qualcosa di più tangibile dei semplici epiteti».
Giacomo Matteotti insomma era l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista e oltre a tutto ciò stava per rivelare alcune irregolarità nel bilancio dello Stato gravato da debiti che finora erano stati occultate dal regime fascista e lo avrebbe fatto in un altro discorso alla Camera previsto per l’11 giugno.
Il giorno prima, però, il rapimento e il fattaccio, che avvenne in una Roma annichilita dal primo dei casi del cosiddetto “Mostro di Roma”, lo stupro di sette bambine e l’omicidio di cinque di esse (nonostante l’assenza di prove su pressione del regime fascista che voleva ergersi a garante dell’ordine venne ingiustamente additato come colpevole il fotografo romano Gino Girolimoni, poi però completamente scagionato), e quindi i fascisti speravano che l’opinione pubblica fosse, diciamo così, distratta.
Un commando di 5 uomini, tutti ex Arditi della Prima Guerra Mondiale e pregiudicati, al comando di Amerigo Dùmini, uno squadrista fiorentino facente parte dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio, preleva forzosamente il deputato socialista appena uscito dalla sua abitazione sul lungotevere nei pressi di Ponte Milvio, non mancando di prendere la documentazione che questi aveva con sé in una busta bianca, rinchiudendolo nel bagagliaio di una Lancia Lambda appartenente al parco macchine della Presidenza. Nemmeno le tracce ci si preoccupò di coprire!
Appena comincia a diffondersi la notizia del rapimento un’ondata di sdegno popolare rischia di travolgere lo stesso partito fascista: quando si cominciano ad apprendere i particolari, alcune frange del PNF si mostrano realmente affrante e addirittura c’è chi come Italo Balbo propone l’immediata fucilazione di Amerigo Dùmini, che nel frattempo era stato incarcerato dalla polizia fascista che ci teneva a prendere le distanze dai fatti. Anche il Duce del Fascismo cerca di sviare da sé ogni sospetto ricevendo a Montecitorio la moglie di Matteotti, la signora Velia, il corpo del marito ancora non è stato ritrovato quindi non si può chiamare “vedova”, ma in realtà mente spudoratamente perché conosce già nei minimi dettagli, ne era stato immediatamente informato, la triste fine che ha fatto il segretario del PSU. La cosa fu ancora più infame perché, oltre che del delitto, si macchiò di giurare alla donna che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito, e mentre giurava, teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania. Le opposizioni in Parlamento proclamano l’Aventino, chiamato così in ricordo della protesta della plebe romana nel 494 avanti Cristo che si ritirò sull’omonimo Colle. I lavoratori di tutti Italia si astengono in massa dal lavoro avendo ben in mente quanto a cuore li avesse Giacomo Matteotti.
Dopo più di due mesi nei quali il governo è stato in bilico e più volte sul punto di cadere sotto la pressione dell’opinione pubblica, il 16 agosto 1924, il corpo di Giacomo Matteotti ormai in fase di avanzata decomposizione venne ritrovato nella macchia della Quartarella, un boschetto sulla via Flaminia nei dintorni di Roma, piegato su sé stesso e ficcato dentro una fossa scavata alla bell’e meglio.
L’ultimo capitolo di questa triste storia lo scrisse Benito Mussolini in persona nella seduta della Camera dei Deputati del 3 gennaio 1925, quando dal banco della Presidenza del Consiglio dichiarò con fare arrogante e di sfida: «Ebbene, signori, io dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto […] Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della miglior gioventù italiana, è mia la colpa!».