Quarant’anni fa, giovedì 16 marzo 1978 ore 9 circa, l’auto che trasportava dalla sua abitazione romana in zona Trionfale l’onorevole Aldo Moro, fu bloccata in via Mario Fani da un commando delle Brigate Rosse composto da diversi terroristi. In pochi secondi, sparando con armi automatiche, vennero trucidati i due carabinieri a bordo dell’auto di Moro, Domenico Ricci e Oreste Leonardi, e i tre poliziotti sull’auto di scorta, Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, e sequestrarono il presidente della Democrazia Cristiana.
L’onorevole Moro si recava in Parlamento perché quel giorno era previsto il voto di fiducia al IV governo Andreotti che aveva visto la luce dopo una crisi lunga e difficile, durata quasi otto settimane (fiducia che fu comunque largamente votata dai partiti che ci tenevano a mostrare la compattezza delle istituzioni di fronte a quello che si temeva fosse un vero e proprio colpo di stato). Quel Governo, un monocolore, sarebbe stato votato anche dal PCI, e questo succedeva per la prima volta in oltre trent’anni di vita repubblicana, dopo l’esperienza dell’astensionismo o della “non-sfiducia”, che aveva consentito la difficile navigazione del governo Andreotti III, nato subito dopo le Politiche del ’76 e dimessosi appunto quasi due mesi prima.
A questa paziente opera di mediazione e di certosina ricucitura di uno strappo che da anni relegava su sponde opposte i due maggiori partiti italiani, DC e PCI, si era dedicato Aldo Moro, uno dei politici più in vista dell’epoca che, da quando fu eletto Deputato alla Costituente nel 1946, ricoprì molteplici e importantissimi incarichi sia nel suo Partito sia nel Governo nazionale e attualmente, da presidente della Democrazia Cristiana, si fece portatore della volontà di una riforma di grande respiro del sistema politico italiano ed era l’ispiratore della strategia di solidarietà nazionale che, appunto, avvicinò il PCI al Governo, quello stesso Partito cioè che secondo la contorta ideologia delle BR aveva tradito le istanze della classe lavoratrice.
L’azione eversiva delle Brigate Rosse, già in atto da un decennio (Autunno ’72, fabbrica Pirelli di Milano), tendeva dichiaratamente a destabilizzare lo Stato colpendo magistrati, uomini politici, poliziotti, giornalisti, dirigenti industriali, strategia della tensione questa che toccò il suo culmine nel marzo 1978 col sequestro dell’onorevole Aldo Moro: quel giorno in via Mario Fani non c’erano solo i “brigatisti” ma anche altri personaggi la cui identità non è mai stata accertata: esponenti dei Servizi Segreti italiani? Tedeschi? Inglesi? O Americani che già avevano fatto pressioni per evitare l’ingresso al Governo dei PCI, sia direttamente con lo stesso onorevole Moro sia attraverso la loggia P2? Mistero…
Del resto i brigatisti rossi da soli probabilmente non sarebbero stati capaci di un’organizzazione dai molti aspetti paramilitari, perfetta sin nei minimi dettagli, anche se essi stessi parlarono di caricatori di mitra inceppati durante l’assalto. Ma chi erano questi terroristi, 10 per la precisione? Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Franco Bonisoli, Alessio Casimirri, Alvaro Lojacono, Barbara Balzerani (unica donna del gruppo di fuoco), Mario Moretti (il vero capo operativo che a bordo della Fiat 128 con targa CD – Corpo Diplomatico – aveva seguito gli spostamenti della scorta di Moro), Bruno Seghetti, e infine Rita Algranati che agitando un mazzo di fiori diede il segnale convenuto alla vista del corteo di auto (fonte Wikipedia).
Con quel rapimento iniziarono i 55 giorni più bui della storia della Repubblica. Aldo Moro, nei memoriali scritti durante quei giorni di prigionia in via Montalcini nel quartiere Portuense, traccia una linea precisa dei poteri che si stavano affacciando e che andavano contrastati per non trasformare irrimediabilmente la società in un impero dominato dalla tecnocrazia economica, dai grandi capitali, dalle banche e dai “club” cui si vantava di non partecipare. Accusa la Commissione Trilaterale, che nasceva in quegli anni e mirava a ridurre l’eccesso di democrazia, e mette in guardia dall’Unione Europea, dominata dagli Stati Uniti che, attraverso il processo di unificazione, miravano appunto a ridimensionarla.
Oltre alla sua “eretica” offerta di governo con il Partito Comunista, esattamente queste critiche nelle sue convinzioni e nei suoi scritti. Durante questa prigionia venne sottoposto ad un patetico “processo politico” e dopo che invano venne chiesto uno scambio di prigionieri con lo stato italiano, il cadavere di Aldo Moro fu ritrovato il 9 maggio nel cofano di una Renault 4 rossa a Roma, in via Michelangelo Caetani, cioè a poche decine di metri dal centro del potere della capitale del nostro Paese e a metà strada dalla sede della DC e del PCI quei due partiti che le BR ritenevano responsabili delle mancate trattative per la liberazione di Moro.
Manteniamo la memoria di quegli eventi, ormai lontani nel tempo ma tragici a tal punto che molti parlarono di “stato di guerra” cui opporsi con adeguate contromisure, eviteremo così il rischio di minimizzare o, ancora peggio, addirittura di incorrere in poco opportune forme di giustificazionismo, atteggiamento quanto mai improvvido questo tanto da consentire a una delle responsabili di quella strage, Barbara Balzerani nome di battaglia “Sara”, mai dissociatasi dalla lotta armata e meno che mai attraversata da un moto di pentimento, di ironizzare sui ricordi legati a quell’evento e di ricevere per questo la risentita risposta dei familiari, rappresentati nell’occasione da Maria Fida Moro, figlia dello statista assassinato a sangue freddo dopo interrogatori e processo farsa, che affida a questo video tutta la sua rabbia.
Aldo Moro politicamente era un “gigante”, forse uno degli ultimi, di statura nettamente superiore ai “nani politici” cui oggi siamo abituati. Con Aldo Moro la gente intravedeva una strada, un possibile sbocco da una situazione difficile che purtroppo s’interruppe bruscamente con la strage di via Fani: qualcuno ha detto addirittura che con lui ebbe fine la stessa Politica!