I racconti, anzi ri cunti, che una nonna fa al suo nipotino nelle fredde serate invernali accanto al focolare, quando non c’era certo il computer e men che meno la vasta scelta televisiva di oggi, sono tra le cose che più rimangono impresse perché appartengono a un passato che, anche se essenziale, spesso aveva un non so che di poetico. Cercherò di ricostruire i versi di una di quelle “quasi poesie” trasudanti sempre verismo ma stavolta addirittura un vero e proprio frammento di vita, talmente vivido e reale da suscitare genuina emozione e sincera commozione in chi raccontava.
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Casale, 22 settembre 1943, mercoledì, ore 20.00
Sentimmo scalciare violentemente alla porta. I bambini, riuniti in cucina per cenare, si alzarono tutti insieme e corsero a stringersi alla gonna della mamma, come a cercare protezione, un rifugio sicuro che solo una mamma può offrire: lei con la pentola in mano stava per servire la cena, a loro e al padre che da poco si era lavato e rinfrescato dopo una lunga giornata di lavoro in campagna… lunga, ma anche dura visto che il padrone presso cui lavorava aveva ordinato al “Caporale” di non fare sconti, di non farsi impietosire dalle lamentele degli operai e di spremerli ben bene, tanto un’altra giornata sicura dove l’avrebbero trovata? Ovviamente fu il padre che, anima e coraggio, andò ad aprire, anche se impaurito dal clima di tensione di quei giorni: i tedeschi, infatti, non l’avevano certo preso bene quel “tradimento”, così lo chiamavano, degli italiani di cui si era venuto a sapere solo l’8 settembre, anzi erano piuttosto incazzati per l’armistizio e stavano per esplodere anche se non si sapeva bene come avrebbero reagito. Ma l’avrebbero fatto, oh! se l’avrebbero fatto anche perché, si sa, l’ex-alleato è sempre più odiato del nemico.
– «Lucià, ri tedeschi stann’a preparà non so quale trappula pe’ stanotte. E non solo a Casale!» – disse un trafelatissimo Giovanni, l’amico di papà che così fragorosamente si era annunciato.
– «Giuà, ma che rici? E mò che ce cunviene fà?»
– «Amma scappà! Stasera! Anzi mò!»
– «Uabbuò, hai ragione. E addò? Cu chi?»
– «Siamo in sei e pensiamo di andare tutti in una masseria sulla collina de le Prieci, così veremmu puri che succere a Casale!»
– «Ma nun è troppu vecinu?»
– «Chisà? Speriamu de no! Ru fattu è che su sulu due o tre ore che sapemmu tuttu.
– «Ma tuttu che? Che sapete?»
– «La mugliere de Pascale, Minuccia, che va a serviziu addù ri tedeschi, al Comando nazista ’ncoppa a ru Ponte, mente lavava ‘nterra, ha sentitu rice agli ufficiali che tra stanotte e rimani matina scatta na trappula, nun sapemmu comme ma è sicuru. L’ha rittu oggi Pascale: mò ce serve sulu chi ce porta a mangià, pecché ’ntenemmu mancu ru tiempu de pensà a niente!»
Rivolgendosi a Melinda, Giovanni chiese:
– «Melì… tu che dici?»
– «Sì sì, ce pensu i. Facci’a verè che vac’a lavà ri panni e ri facciu fessi a ri tedeschi!», disse un bel po’ spavaldamente, ma in realtà cercava di nascondere la paura che quasi la paralizzava e cercava di non allarmare troppo i bambini che già stavano per piangere.
– «Uabbuò Lucià, allora iammu: pigliete ‘na giacchetta e iammu!»
A questo punto Luciano, messo dinanzi all’ineluttabilità dei fatti e di gran lunga meno spavaldo della moglie, dopo aver baciato i figli sulla fronte e preso accordi con Melinda per l’indomani, se ne uscì seguendo Giovanni.
Casale, 23 settembre 1943, giovedì, ore 6.00
Nascosti tra i frondosi alberi della parte inferiore della collina de le Prieci, Monte Cuccu veniva chiamata quella zona, mio nonno Luciano e i suoi amici Giovanni, Antonio, Totonnu, Luigi, Sandro, o Lisandru, e Pasquale il marito di Minuccia grazie alla quale quel gruppo si era formato, e per finire Pietro, che tutti chiamavano Petucciu fin da bambino anche perché col passare degli anni non è che fosse cresciuto tanto, scrutavano già da ore con morbosa curiosità le strade della sottostante Casale, il nostro paese in linea d’aria distava solo 300 m, ma tra alberi e crepacci ogni rumore giungeva smorzato o, nella migliore delle ipotesi, distorto. Miravano, rimiravano, occhieggiavano, allungavano il collo come quando si è in apnea e si cerca ossigeno per sfuggire all’asfissia o all’annegamento. In effetti era in ballo una buona fetta della loro vita e, solo dopo l’avremmo saputo ma sicuramente in cuor loro già lo sentivano, delle loro famiglie. Riuscivano a scorgere un uomo con una divisa, che urlava qualcosa in un megafono e questo andava avanti fin dalle prime luci dell’alba, ma non si riusciva a capire bene cosa anche se doveva essere importante visto che per ben tre volte quell’uomo, non se ne riuscivano a scorgere i lineamenti del viso, fece il giro delle strade e dei vicoli del paese. Dopo un bel po’ cominciarono ad osservare un gran viavai di gente che frettolosamente si raggrupparono nella piazza del paese dove c’erano tedeschi, quelli sì che si riconoscevano bene, sia per le loro movenze marziali e quasi da automi, sia perché armati con mitragliatrici che tenevano minacciosamente imbracciate; si vedevano anche molte donne che cercavano di fermare gli uomini diretti al centro del paese e di frapporsi come ostacolo tra loro e la destinazione che avevano, cioè la Piazza. Che stava succedendo? La tensione cresceva tra gli otto uomini anche per l’impossibilità di capire, un’impossibilità molto simile all’impotenza. Solo con la venuta della moglie di Luciano, Melinda, si sarebbe saputo qualcosa di certo: ma per questo avrebbero dovuto pazientare ancora un altro giorno, e si sa in frangenti simili la pazienza è sempre merce rara, anzi rarissima tanto da venir soppiantata dall’impazienza.
Casale, 24 settembre 1943, venerdì, ore 6.05
Melinda riuscì a venire di buon mattino e, come aveva anticipato al marito e a Giovanni, riuscì a ingannare i tedeschi fingendo di recarsi a lavare al ruscello: portava infatti sulla testa una grossa cesta di vimini (ru panaru) pieno di panni sporchi e di qualche stoviglia… ma solo per metà, perché nello strato inferiore, ben nascosto a mo’ di sottofondo, c’erano un po’ di vivande per i “rifugiati”, cioè pane, qualche pezzo di salsiccia, un po’ di formaggio e una bottiglia di vino, tutto racimolato in dispensa. I bicchieri e le posate che aveva finto di voler lavare erano stati portati per quell’improvvisato e obbligato pic-nic.
– «Ho portato da mangiare, accussì per qualche giorno ancora non vi muovete. Sapete, non si sa mai»
– «Melì, tutt’a posto cu ri tedeschi?»
– «Sì sì, ma io l’avevo detto che facevo finta di venire a lavare… certo che dopo ieri stanno tutti allerta!»
– «Giusto questo volevamo sapere… CH’È SUCCIESU!»
– «‘Na cosa brutta, ate fattu bbuonu a scappà, ri tedeschi s’hannu arrubbatu quasi a tutti. Mò ve ricu»
Dispiegato un lenzuolo, adattandolo come tovaglia, Melinda cominciò a tagliare pane e del formaggio per distribuirlo a tutti; poco ovviamente, i tempi erano magri già in condizioni normali, e cominciò:
– «Ieri mattina sin dalle 5.00, in pratica appena ci si vedeva, si cominciò a sentire un rullio di tamburi (tipo La Sveglia di San Paolo ve la ricordate?) e ogni tanto, diciamo ogni 100 metri, un uomo con la divisa dei Vigili di Carinola, leggeva un comunicato dei tedeschi in cui s’invitavano tutti gli uomini a raggiungere la piazzetta per ascoltare un loro ufficiale che doveva comunicare qualcosa»
Fece una pausa. Il viso le divenne paonazzo. Gli occhi le si riempirono di lacrime ed esplose:
– «MA ERA NA TRAPPULA! STI CANI! Ecco la trappola di cui parlava Minuccia de Pascale e cui accennava Giovanni quando venne da noi l’altro ieri sera!»
Per un po’ non riuscì a parlare, ma poi Melinda, con gli occhi ancora velati di lacrime, riprese, e singhiozzando spiegò loro che i tedeschi con i mitra spianati avevano costretto tutti gli uomini a rilasciare le loro generalità e li avevano obbligati a seguirli dove dicevano loro aggiungendo che se non l’avessero fatto per ritorsione avrebbero ucciso le loro mogli, figli, padri e madri anziani, sorelle, tanto ormai avevano preso i nomi di tutti. A ognuno era stata concessa un’ora di tempo per andare a casa, salutare i parenti e tornare subito in piazza dove c’erano i camion ad attenderli.. Destinazione inizialmente ignota, ma siccome tutti temevano che li avrebbero deportati in Germania, i parenti, mogli in primis, cercavano di fermarli in tutti i modi, persino inseguendoli per strada, e loro rispondevano che ormai erano stati incastrati e che se fossero scappati i tedeschi per vendicarsi avrebbero ucciso tutti loro di famiglia. Dopo esser ritornati in Piazzetta, sempre sotto la minaccia delle armi, erano stati costretti a salire su dei camion, così come previsto. Per buona sorte qualcuno di essi, una decina forse, è riuscito a salvarsi, chi fingendosi malato e chi perché lesto a scappare prima di arrivare al punto di raccolta del monte Massico ma adesso non restava che affidarsi alla preghiera per la sorte di quelli di cui non si sapeva più nulla da quando erano saliti sul treno a Sparanise probabilmente per la Germania di Hitler. Il gelo scese sulla compagnia di amici: non si sentiva nessuno respirare e solo i singhiozzi di Melinda, che comunque cercava di riprendersi, infrangevano la mesta cappa di silenzio che aveva avvolto la compagnia.
L’andirivieni di Melinda con un certo patema d’animo, più che giustificato visto che anche solo un semplice sospetto avrebbe portato alla morte, non solo sua ma anche ovviamente degli uomini rifugiati e dei figli piccoli, durò per più di due mesi fino ai primi di dicembre quando le truppe tedesche furono costrette a ritirarsi dall’avanzata Alleata e ad attestarsi sulla Linea Gustav e precisamente a Monte Cassino, il baluardo più importante di quel sistema difensivo. Solo allora la tenaglia nazista su Casale si allentò e i nostri otto fuggiaschi poterono far ritorno a casa e dormire nei loro letti. Erano stati fortunati loro, meno quelli che purtroppo erano rimasti coinvolti nel rastrellamento perché invischiati nella trappola ordita dai tedeschi e men che meno quelli che dopo quasi due anni di prigionia in Germania non erano sopravvissuti e non si poterono riconsegnare all’affetto dei propri cari. Il racconto di mia nonna terminò, ma nonostante fossero passati più di trent’anni non potevo fare a meno di notare che ogni volta che lo raccontava una lacrimuccia le imperlava il viso.
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Trenta-quaranta, forse pure cinquanta, sono stati quelli che quel giorno furono obbligati a partire per un “normale lavoro retribuito” («qualche giorno», avrebbero detto ingannevolmente i tedeschi), anche se poi la storia li bollò molto crudamente, ma ahimé realisticamente, come gli “Schiavi di Hitler”, migliaia di uomini, moltissimi dalle altre frazioni del comune di Carinola e da tutto l’Alto Casertano, costretti dal nazismo ad ingrandire l’industria bellica di Hitler e far proliferare quel tumore nefasto rappresentato dalle folli voglie espansionistiche del Führer, cancro le cui metastasi stavano per risultare esiziali per il mondo intero che fortunatamente trovò il modo di arginare.
One thought on “Casale, fuga dal giorno più buio”
Mi sembra di sentire le parole di mio padre il Prof Angelo Migliozzi che in quel periodo si trovava come ufficiale dell ‘ esercito italiano a Colle di Tenda in provincia di Cuneo , dove fu fatto prigioniero dei tedeschi a soli ventidue anni e deportato in Germania nei campi di concentramento dove è rimasto due anni per essere liberato dopo e dove ebbe il piacere di conoscere Primo Levi .Ritornò che pesava solo trentotto chili ma riportando in ITALIA la divisa integra e orgoglioso di appartenere all ‘ esercito italiano e dopo gli arrivò il grado di capitano e la medaglia al valor civile lui che aveva perso il padre Migliozzi Salvatore nella guerra 15/18 all’ età di 32 anni .Mentre mio padre veniva liberato il fratello di mia madre Guido Olivares moriva da eroe per salvare undici italiani a Bologna . Sono ricordi che fanno parte della nostra storia .