Vino nel mondo antico: dalle origini all’Enotria

Si finisce per essere giustamente orgogliosi, scoprendo che tutto il vino prodotto oggi in Europa ha radici italiane: lo dimostrano le ricerche del professor Attilio Scienza, il più autorevole studioso di genetica della vite, che ha documentato scientificamente, attraverso le più moderne tecniche del Dna, che 78 vitigni coltivati oggi in Europa, dalla Spagna all’Ungheria, hanno un unico ed antico progenitore comune: il vitigno che l’imperatore romano Marco Aurelio Probo affidò alle sue legioni. Un viaggio nella storia, dunque – una storia che gli italiani non conoscono e che i francesi non vogliono conoscere! – pare confermare che “tutte le strade del vino portano a Roma” e che, di conseguenza, molti dei vini blasonati, italiani e francesi, sono nati per mano degli antichi Romani: insomma, “Roma caput vini”.

Bevanda che nasce dall’azione del pensiero e del lavoro umano, dal possesso di conoscenze e dall’elaborazione di tecniche, il vino si rivela opera di un sapere che manipola la natura per renderla fruibile, che mediante armoniosi filari agisce sul paesaggio, modificandolo, così da far riconoscere la presenza dell’uomo. Tutta la sua storia si colloca su di un piano simbolico, denso di significati sociali e culturali; lo stesso termine “vino”, derivato molto probabilmente dalla radice sanscrita ven-, “amare”, dalle origini, dunque, antichissime e ampiamente precedenti la civiltà greca (οἷνος), dalla quale ci è giunto attraverso la lingua etrusca e poi quella latina (vinum), nasce autonomamente rispetto alla pianta da cui è tratto, la vite, e si può perfino sostenere che la formazione del concetto stesso sia anteriore a quello di “vite”. Si tratta di un termine che ha viaggiato nel corso dei millenni tra popoli e lingue diverse, in un’area estremamente vasta, che va dall’India al Mediterraneo, presso le località in cui si sviluppò l’innovazione della viticoltura: pertanto, possiamo sostenere che il mondo, attraverso questa parola, si trovò “globalizzato” molti millenni fa. In quanto manufatto, esso è coinvolto in un triplice complesso di funzioni: come tecnofunzione, infatti, partecipa della sfera tecnologica, come sociofunzione di quella sociale e come ideofunzione di quella ideologica, entrando in un circuito di codici simbolici. Il vino non si colloca nella dimensione del necessario e, dunque, del quotidiano, ma piuttosto in quella del superfluo e, pertanto, del festivo. Da questo apparente paradosso, che situa il vino e il suo consumo in una dimensione cerimoniale, carica di forti valenze simboliche, scaturiscono la ricca mitologia e l’alta ritualizzazione che lo hanno accompagnato lungo tutta la storia dell’Occidente e che ancor oggi perdurano, sia pure sottratte alla dimensione sacrale, eccezione fatta per la Messa cristiana.

Il vino nell’antica Grecia

Gli albori della sua storia si scorgono nella vicenda biblica in cui si narra di Noè, che scopre la possibilità di trarre dai grappoli delle viti, che crescevano spontanee, una bevanda gradevole ed inebriante, racconto che ci documenta la conoscenza della vinificazione già in epoca prediluviana: “Noè, che era agricoltore, cominciò a piantare la vigna e bevve del vino; s’inebriò e si denudò in mezzo alla sua tenda” (Genesi); ancora, gli Ebrei dell’Antico Testamento consideravano la vite “Uno dei beni più preziosi dell’uomo” (I Re) ed esaltavano “Il vino che rallegra il cuore del mortale” (Salmi). Sui bassorilievi assiri (III millennio a.C.) con scene di banchetto sono rappresentati schiavi che attingono il vino da grandi crateri e lo servono ai commensali in coppe ricolme. Nell’epopea di Gilgamesh, mitico re sumerico del 4000 a.C., c’è, forse, il primo riferimento scritto al vino: qui Siduri, “la fanciulla che fa il vino”, è l’elemento femminile medianico senza il quale Gilgamesh non potrebbe effettuare il passaggio, la metamorfosi verso una umanità nuova, spirituale, creatrice di civiltà. Il vino, che Siduri porge all’eroe, è metafora di una trasformazione: bevanda spirituale, “culturale”, che fa da spartiacque tra il mondo precivile, selvatico, e la civiltà. Più precisamente, gli albori della vitivinicoltura vanno individuati nella regione del Caucaso, in Armenia e nel Turkestan, dove sono state rinvenute tracce di contenitori risalenti ad 8000 anni fa che, da approfondito esame organolettico, attestano la presenza di vino. Da qui, la sua produzione si diffuse a sud, verso gli altopiani iranici ed ancora oltre verso l’India, e ad ovest, attraverso il Mar Nero, nel Mediterraneo, dove ebbe larga diffusione in Egitto e nel vicino Oriente. Qui, la pratica della vinificazione divenne molto intensa e diffusa intorno al 1000 a.C., in modo particolare nel Delta del Nilo, dove si svolgeva una specifica produzione su base resinata; alcune pitture tombali egizie attestano il sistema di coltivazione “a pergola”, la pigiatura dell’uva, la fermentazione nelle anfore e perfino una rudimentale pratica di invecchiamento.

Fu proprio questo vino resinato ad essere introdotto in Grecia, inizialmente nelle isole di Lesbo e Samo, nell’Egeo. Già l’Iliade parlava del vino di Priamo, il più antico tra i vini greci, prodotto nell’isola Icària, dall’unica vite che i Greci conoscevano come sacra; e sempre nell’Iliade, nella descrizione dello scudo di Achille, si dipinge una florida vigna a ceppo con sostegni a paletto: “(…) vi pose anche una vigna, stracarica di grappoli, bella, d’oro: (…) era impalata da cima a fondo di pali d’argento (…); un solo sentiero vi conduceva, per cui passavano i coglitori a vendemmiare la vigna; fanciulle e giovani, sereni pensieri nel cuore, in canestri intrecciati portavano il dolce frutto” (Il. XVIII, 782 sgg.); mentre l’Odissea ci fornisce un’interessante informazione storica sul vino: il primo “prodotto DOC” della storia enologica si chiamerebbe Ismàro, prodotto nell’omonima località dell’Egeo settentrionale e risalente all’epoca della guerra di Troia, dunque alla civiltà micenea (circa 1200 a.C). Il ciclo epico greco fissa, così, l’inizio del tempo dell’uomo: l’arte di navigare e l’arte di produrre vino. La frequenza delle citazioni letterarie e delle illustrazioni della pittura vascolare è così elevata, da far, giustamente, ritenere che il vino costituisse l’elemento centrale nella vita e nella cultura del tempo: strumento cerimoniale e celebrativo, compagno e liberatore nei momenti di sconforto e tristezza, dio offerto in sacrificio agli dei, bevanda d’incontro e di comunicazione:

 

“Beviamo.

Perché aspettare le lucerne?

Breve il tempo.

O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte,

perché il figlio di Zeus e di Sèmele

diede agli uomini il vino

per dimenticare i dolori.

Versa due parti d’acqua e una di vino;

e colma le tazze fino all’orlo:

e una segua subito l’altra.”

 

(Alceo, fr. 346 Lobel-Page)

 

In Grecia, il consumo del vino era vissuto come atto collettivo, da svolgersi nello spazio del “simposio”, letteralmente “il bere insieme”, una forma di socialità con delle regole miranti alla precisa divisione del piacere. Era, soprattutto, un momento sacrale, i cui partecipanti non costituivano una semplice “società” nel nostro senso, ma un thìasos, una comunione, una unione di individui coinvolti in una dimensione intima e sacra, attraverso l’atto del bere vino. Durante il banchetto, veniva nominato o estratto a sorte un “simposiarca”, con il compito di stabilire e far osservare le proporzioni da rispettare nella miscelazione del vino e la quantità spettante a ciascuno: nel mondo antico, infatti, vi era consapevolezza dell’ambiguità insita nel succo dell’uva, del fatto che quel liquido, così profumato, era in grado di appropriarsi della mente di chi lo avesse bevuto; e tutta la sua storia è scandita da inviti ad un uso misurato e attento: per questo i Greci appresero a controllarne gli effetti, grazie a Dioniso, che aveva insegnato al re d’Atene Anfizione a miscelarlo con l’acqua, distinguendosi così dal selvaggio Ciclope, che nell’Odissea beve il vino puro che Ulisse gli porge, per farlo addormentare: “Su, Ciclope, poiché cibasti umana carne, vino bevi ora” (Od. IX, 440 sgg.). Ma l’eccesso e la sregolatezza vanno puniti: e così, Polifemo espia il suo “pasto anomalo” con l’accecamento. Il culto di Dioniso, dio del vino, essenza stessa del creato nel suo perenne e selvaggio fluire, simbolo del frenetico flusso di vita che tutto pervade, era profondamente radicato nella vita e nella mentalità del tempo e si articolava in suggestive feste, durante le quali i fedeli, attraverso il vino, ricercavano uno stato di estasi e di mistica esaltazione, quale preludio alla partecipazione dello spirito divino; mentre le Anthesteria, che cadevano nel periodo primaverile, celebravano l’apertura delle botti e l’assaggio del vino nuovo pigiato in autunno. (Mi ha da sempre affascinata e fatta sorridere quanto il termine greco “κάνθαρος”, kàntharos, la tazza dagli alti manici ricorrente nelle raffigurazioni dei rituali al dio Dionisio, una sorta di precursore del nostro bicchiere, sia così simile alla parola “cànteru”, che nel dialetto casalese designa un vaso, non utilizzato per contenere vino, ma in ogni caso un recipiente!). In virtù di una simile importanza sociale e religiosa, i Greci contribuirono enormemente alla viticoltura e all’enologia, sviluppando efficaci tecniche, poi introdotte anche nei paesi da essi colonizzati, favorendo la coltivazione della vite e la produzione di vino, fino a farli divenire parte integrante delle culture e dei riti dei popoli del Mediterraneo.

Attraverso i Greci ed i Fenici, l’arte della coltivazione della vite migrò dapprima in Italia meridionale e Sicilia, poi, per il tramite degli Etruschi, nelle regioni centro-settentrionali. Il vino è uno dei prodotti dell’antichità legato al nome ed al concetto di Magna Grecia: Enòtria, “la terra del vino”, dal greco oînos, “vino”, era denominata la zona a sud di Metaponto, considerata dai Greci terra eccellente per la produzione del vino. La nostra penisola si dimostrò adattissima alla coltivazione di questa pianta: le fonti epigrafiche note col nome di “Tavole di Eraclea”, grazie alle quali è stato possibile ricostruire il paesaggio agrario per il periodo compreso tra il IV e III sec. a.C., documentano come le coltivazioni principali, più redditizie, fossero i cereali, l’olivo e la vite. In Etruria, dove la coltura della vite aveva fatto la sua apparizione nella prima metà del VII sec. a.C., già nel corso del VI la distribuzione di anfore vinarie nel Lazio, in Campania, nella Sicilia orientale, in Sardegna, in Corsica e, a nord, sulle coste meridionali della Francia e della Spagna, è indice non solo del volume dei traffici intrapresi, ma anche dell’intensità di una produzione ormai ben avviata; i semi di vite trovati nelle tombe del Chianti provano che gli Etruschi portarono questa pianta dall’Oriente e la acclimatarono in Italia.

Il vino e la vinificazione in età romana

Catone, nel suo De agri cultura, pose la vigna come la prima delle culture italiche; mentre Orazio affermava: “Non piantare, o Varo, alcun albero prima della vite sacra!”; ed ancora, Plinio il Vecchio: “Da dove potremmo cominciare se non dalla vite, rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dar l’impressione di aver superato, con questa sola risorsa, le ricchezze di ogni altro paese, persino di quelli che producono profumo? Del resto, non c’è al mondo delizia maggiore del profumo della vite in fiore”. I Romani avevano ereditato una profonda conoscenza dei segreti della coltivazione e della vinificazione e le fonti antiche attestano la presenza, nella Roma arcaica, di viti maritate ad alberi, sul modello etrusco, e di vigneti bassi, coltivati in vigne “a sostegno morto”, sul modello greco. Ma fu solo in seguito alle vittorie fra il V e il III secolo a.C. che, determinandosi un indirizzo più industriale dell’agricoltura, la vite venne ad occupare il primo posto fra le colture di gran reddito attraverso la realizzazione di aziende agricole razionali, fornite di vere e proprie piantagioni specializzate, a conduzione schiavile: Columella, autore latino di agronomia, dà consigli molto accurati sulla coltivazione ideale della vite e i segreti per rendere produttivo un vigneto: “Prima di piantare la vigna, esamina di quale sapore sia il campo; il sapore del vino, infatti, corrisponderà al gusto della terra”. A partire della metà del II sec. a.C., le importazioni di vini dall’Egeo subirono un crollo, favorendo la commercializzazione dei vini italici. Il vino divenne un prodotto di eccellenza e si diffuse oltremodo: Plinio il Giovane si lamentava che le cantine non avessero più recipienti per accogliere l’uva, sempre abbondante; nel I secolo d.C., Marziale si doleva che a Ravenna l’acqua fosse più scarsa del vino; Erodiano, nel II secolo d.C. indicava tutta l’enorme quantità di vino che veniva convogliata dalla pianura padana ad Aquileia, per poi venire inviata nelle aree illirico-danubiane. Si è stimato che il fabbisogno di vino, in età imperiale, a Roma, ammontasse a circa un milione e mezzo di ettolitri l’anno; i vigneti dell’area tirrenica, in particolare quelli della Campania settentrionale e del Lazio meridionale, contribuivano a soddisfare, anche se in minima parte, una domanda di tali proporzioni.

Nella Naturalis Historia, Plinio il Vecchio elencava 91 vitigni diversi con 195 specie di vini; la loro semantica si rifaceva soprattutto all’origine geografica e alle caratteristiche morfologiche. Inizialmente, le varietà di uve da vino più famose, di origine greca e molto coltivate in Sicilia, nella Magna Grecia e nelle conquiste romane, erano le Aminee e le Nomentanae, ricche di colore; esse davano vini pregiati. Vi erano anche le Apianae o Apiciae, uve a sapore moscato, così chiamate perché, quando erano mature, attiravano le api; si coltivavano, però, anche viti più produttive e resistenti, provenienti dalle province, quali la Balisca, la Rhætica, molto diffusa nel veronese e la Buririca, che ha dato origine ai vigneti di Bordeaux, oltre alla Lambrusca, vite selvatica. Alla fine della Repubblica, le qualità più note e ricercate erano due, il Caecubum ed il Falernum, che rimasero a contendersi il primo posto fino all’inizio del regno di Augusto; sotto Augusto, si guadagnarono buona reputazione nuove qualità, quali i vini di Setia e di Sorrento, il Gauranum, il Trebellicum di Napoli e il Trebulanum.

Il Caecubum, vitigno scomparso, cresceva in un territorio palustre a sud del Lazio, presso il golfo di Gaeta e se ne ricavava un vino pregiatissimo, molto celebrato dagli antichi, tanto che Orazio ricorda che i vini cecubi erano nascosti, come un bene prezioso, sotto cento chiavi. Del Falernum, prodotto nella vasta area collinare della Campania che, da Sessa Aurunca e dalle falde del vulcano di Roccamonfina si spinge fino al monte Massico, ai confini con il Lazio, gran parte degli scrittori latini hanno tessuto l’elogio; della qualità e della fama da esso raggiunta ne era prova anche il costo elevatissimo, testimoniato dalla scritta ritrovata a Pompei: “Edone fa sapere: qui si beve per 1 asse; se ne paghi 2, berrai un vino migliore; con 4, avrai vino Falerno”. I termini più usati per descriverlo, soprattutto da Orazio, sono severum, cioè “asciutto”, ardens, “focoso” e fortis, “forte”. Tale era la sua importanza che veniva offerto da Cesare al popolo per celebrare i suoi trionfi militari in Gallia e Spagna. Fa la sua celeberrima comparsa nel Satyricon di Petronio, nella famosa cena in casa del ricco liberto Trimalcione: “Un attimo dopo arrivano delle anfore di cristallo accuratamente sigillate e con delle etichette sul collo con la scritta: «Falerno Opimiano di cent’anni». Mentre eravamo impegnati a leggere, Trimalcione batte le mani urlando: “Oddio, dunque il vino vive più a lungo di un pover’uomo! Ma allora scoliamocelo tutto d’un fiato! Il vino è vita (…)”.

Particolarmente apprezzati dai Romani erano i vini dolci e speziati, come il passum, vino passito, la sapa, mosto cotto, il defrutum, vino cotto e concentrato per bollitura, il mulsum, vino dolcificato con miele, fichi o datteri, il rosatum, profumato con petali di rosa, il violacium, aromatizzato con petali di viole, il granum Paradisi, addizionato con chiodi di garofano, miele, zenzero e cannella, la murrina, vino profumato di mirra; ma si servivano anche vini meno pregiati, destinati al popolino, come la posca, bevanda d’acqua e aceto, o la lora, un vinello ricavato dalla fermentazione delle vinacce con acqua. Vi erano anche alcuni vini resinati, ma considerati di cattiva qualità, poiché la resina si aggiungeva ai vini più scadenti, in modo che si conservassero più a lungo.

Dopo la vendemmia, il mosto era depositato nei dolia, dei prototipi di botti dapprima di creta, poi di legno, tappati ed interrati per 3/4 della loro altezza, e lì lasciato fermentare. Dopodiché, il vino ottenuto era travasato in anfore a doppia ansa chiamate seriae, di capienza dai 180 ai 300 litri, impermeabili e dotate di una punta che si conficcava nel pavimento. Prima del III sec d.C., le anfore di ceramica erano i contenitori principali per il traffico marittimo, con una capacità di una ventina di litri, chiuse ermeticamente con tappi di sughero e sigillate con pece, che consentiva l’invecchiamento; su di esse veniva impressa un’etichetta, il pittacium, che recava il luogo di provenienza del vino, il nome del produttore e quello del console in carica. Verso la fine del I sec. d.C., l’anfora per il trasporto del vino fu sostituita dalla botte, più comoda da caricare. Per il commercio del vino, i Romani utilizzavano Naves Vinariae, piuttosto piccole, veloci e resistenti alle tempeste, capaci di circa 300 anfore.

Nelle numerose feste pubbliche della Roma antica, così come presso i Greci, era presente una sorta di personale che si occupava esclusivamente di miscelare e servire il vino: la figura del sommelier, ovvero del dispensatore di bevande, sembrerebbe, dunque, presente sin dai tempi più antichi e, con tutta probabilità, la sua funzione era già allora ritenuta prestigiosa. La diffusione del culto di Bacco, a Roma, avvenne intorno al II secolo a.C. e, analogamente al culto di Dioniso in Grecia, da cui deriva, si trattava di un culto misterico, riservato ai soli iniziati e con finalità mistiche. Ben presto, i seguaci si scontrarono con la religione ufficiale di Roma, al punto che nel 186 a.C. il Senato, dietro iniziativa di Marco Porcio Catone, emise un famoso senatoconsulto, al fine di sciogliere il culto. Negli ultimi anni della Repubblica, vennero create le due feste vinicole istituzionali, i Liberalia del 17 marzo, per celebrare Libero-Bacco, il dio italico della fecondità, del vino e dei vizi, ed i Vinalia, celebrati prima ad aprile, per festeggiare il raccolto d’uva dell’anno precedente ed assaggiare il vino nuovo, poi ad agosto, per propiziare l’abbondanza della vendemmia successiva.

Nella società romana maschile il ruolo del vino era di primaria importanza, dalla sfera sociale e religiosa a quella medica; era, infatti, normalmente utilizzato anche come eccipiente di diverse erbe medicinali. Confinato nella sfera del sacro, il vino puro, bevanda inebriante per eccellenza, era assimilato al sangue ed era il mezzo/simbolo della relazione tra gli uomini e gli dei; è forse per questo che alle donne era rigidamente proibito, attraverso un’antica legge, lo ius osculi, che consentiva all’uomo di baciare una propria congiunta, per acclarare se avesse bevuto o meno del vino. Vuoi per il colore rosso che evoca il sangue, l’elemento vitale per eccellenza, vuoi per la vitalità e l’entusiasmo di cui è portatore: non a caso in Grecia era proibito utilizzarlo durante riti e sacrifici in onore delle divinità sotterranee, che non avrebbero gradito la “bevanda dei vivi”; e, non a caso, il Cristianesimo, al tramonto dell’Impero, lo assunse quale materia per il suo più alto rito, quello eucaristico, contribuendo così, indirettamente, alla fioritura della vitivinicoltura in Europa. Come abbiamo visto, il vino è stato da sempre utilizzato in funzione iniziatica durante feste e riti religiosi, consentendo all’adepto delle sette misteriche il superamento di un’esperienza ristretta e mortificante della propria individualità, che, attraverso l’ebbrezza, veniva finalmente restituita all’abbraccio del Tutto e dell’Uno. E sovente è al vino che fanno riferimento le metafore volte a significare l’esperienza mistica: “Nella cella del vino m’introdusse”, celebra il Cantico dei Cantici (2,4), parlando dell’incontro dell’anima con lo Sposo, mentre per il musulmani il vino è “Bevanda dell’amore divino” e, non a caso, il loro divieto nel consumo del vino nasce dal suo potere e significato rituale. Insomma, presso tutte le civiltà, il vino è l’elemento alchemico di una trasformazione, capace di liberare l’oro dell’anima da tutte le impurità che ne offuscano lo splendore.

Oggi, che il potenziale dell’Italia vitivinicola si va riesplorando con sempre maggiore interesse e, soprattutto, stiamo vivendo un grande rilancio della viticoltura campana e meridionale, bisognerebbe riscoprire in noi quella passione che necessariamente dev’esserci, in quanto figli di una terra ricca di memorie antiche legate al vino, per costruirne il prestigio sul piano della cultura territoriale: un prodotto tipico, un bene culturale, da difendere e valorizzare, da buoni intenditori e non semplici degustatori, nella consapevolezza che un buon vino può essere, a tutti gli effetti, un’opera d’arte.

di Adele Migliozzi

 

N.B. – Quest’articolo sarà stampato e diffuso anche durante la Festa della Vendemmia presso i due Infopoint, vera e propria guida ai percorsi della Festa, ed eventualmente altrove a discrezione del Comitato Organizzatore.

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