Il supereroe

super-eroeDopo quarantadue anni di fedele servizio al consorzio agrario, l’ex impiegato Vito festeggiava il suo primo giorno  di pensione.

Quella mattina era rimasto a letto godendosi l’insolita sensazione di fottersene completamente di tutto, a cominciare dalla sveglia, per poi passare dalla moglie Casimira alla figlia Natasha e al freddo boia che in inverno avvolge l’appartamento di Testaccio, in una cappa siberiana, e ancora al cane Temistocle da portare a pisciare e alla macchina da lavoro, un Fiat 128 del settantacinque, che si fermava ogni chilometro nei giorni dispari e ogni due in quelli pari (ma, per fortuna, quella nuova stava in garage ricoperta col plaid a fiorellini).

Basta! Fine! L’agognato riposo stendeva placide prospettive sulle stanche membra del povero Vito. La pacchia sia con lui (e con il suo spirito).

Vito era sposato con quella che da fatina candida aveva subìto una terribile metamorfosi in campionessa mondiale di scasso di minchia, ovvero: Casimira, voce stridula e squittio sulle frequenze del topo, tupè cronico in testa, era l’ossessione vivente del pover’uomo, una ciste umana che Vito aveva tra le palle da un abbondante quarto di secolo. Ebbene, anche nel suo primo giorno da pensionato, la megera non aveva rinunciato a torturarlo – Eccollà, er pascià! er magnasbafo a tradimento! ahò! c’è stà er sacco de bacherozzi da portà fori! se pensi che ce’ vado io, caschi male! li mortacci tua!! – Ovviamente, per sacco di bacherozzi la donna intendeva il cane Temistocle, un piccolo bastardino dello stesso colore dei suoi capelli e dalle cinquanta pisciatine giornaliere.

L’ex impiegato si sollevò dal letto in silenzio, chiese gentilmente la solita tazzina di caffè, e una voce di cornacchia rispose: – E che credevi, mo’ te preparo pure er caffè?! hai finito de’ lavorà, te lo puoi fa’ da solo, no dico eh! – Come non detto, niente caffè. Vito fischiò a quel bastardino pezzato, che invece di scodinzolare gli ringhiò.

Giunti in strada, Temistocle ci ripensò e azzannò il povero Vito. Dopo mezz’ora di pipì territoriali, Vito e Temistocle tornarono verso casa. Ma giunti sull’uscio di casa, il neo pensionato trovò la porta chiusa dall’interno. Suonò e dal quartier generale della sua disgraziata vita sentì provenire degli strani rumori, sembrava la voce di sua figlia Natasha, e di certo non si stava lamentando… anzi! se la memoria non lo tradiva, simili suoni li aveva già uditi da quell’arpìa di Casimira, prima che il tempo ne facesse scempio. Nello stesso istante Ulrico, il bimbo del piano di sopra, scese a giocare accompagnato dalla madre e additò il buon Vito. Poi, in quell’odioso modo, che solo i bambini odiosi sanno fare, esclamò:

– Mamma, è questo il signore che dice papà, con la figlia che fa le marchette quando lui non c’è?… – Ulrico, otto anni, pallone e lentiggini, era per antonomasia la “peste bubbonica” del quartiere.

– Bru-sche-tte, Ulrico! fa le bruschette. Zitto e vieni via! – salvò la madre in calcio d’angolo, tirando per un orecchio quel piccolo gianburrasca di periferia.

Finalmente Vito capì, la figlia si vendeva, coperta dalla madre. Il mondo intero si rovesciò sulle sue spalle, Temistocle ricominciò a ringhiare e nel cuore Vito sentì la proiezione di un dolore di tipo cosmico, uno di quei malesseri dell’anima che mordono la coscienza, torturano la mente in un’autocritica che gira intorno alla solita domanda: dove ho sbagliato? e il cane lo morse una seconda volta, Vito neanche ci fece caso, scese le scale e s’immerse in quel luogo infinitesimale che porta ovunque e da nessuna parte: la strada.

Sorprese dei ladri che stavano portando via la sua fiat 131 station wagon nuova di tre mesi, che non aveva ancora finito di pagare e la cui polizza furto era appena scaduta, Vito cominciò a correre come un disperato, gridando aiuto ai passanti inesistenti. La corsa breve data l’età del neo derubato, l’aveva spossato al tal punto che si lasciò cadere sul marciapiede. Lo raggiunse intanto Temistocle, che puntuale lo azzannò ancora una volta, Vito non sapeva per cosa piangere, se per la figlia che stranamente da un paio d’anni girava in cabriolet rossa con dei vestiti di pelle, o per la macchina andata, il frutto di anni di sacrifici, straordinari e leccaculismi vari.

Questo, per far fare la signora a quel pagliericcio della moglie, e per dare uno schiaffo morale al vicinato abituato a fargli i conti in tasca. Gli uccelli che volavano basso annunciavano pioggia in arrivo. Il vento si alzò coi suoi mulinelli di foglie e terra, i primi goccioloni spinsero Vito e il suo cane a cercare riparo sotto un balcone, dov’era appena giunto un giovane. Aveva i capelli viola, piercing al naso, orecchini e sguardo torvo. Con le mani in tasca fissava Vito con quell’innato disprezzo verso il prossimo, tipico della nuova generazione.

– ‘ngiorno – salutò Vito, palesemente intimorito da quella sinistra figura, abbozzando un sorrisetto di circostanza. Temistocle stava accucciato, marcio di paura, mandando a puttane il decoroso e innato senso di protezione per il padrone, tipico bastardino italiano, trionfo di promiscuità, apoteosi di ripetuti incroci materni.

Comunque, per farla breve o questo racconto non lo finisco più, Vito venne letteralmente saccheggiato di denaro ed effetti personali dal giovinastro “vicino di pioggia”. Seduti sul muretto di una scuola, cane e padrone si offrivano curvi e desolati alle prossime sorprese che il fato aveva in serbo per loro. Aveva smesso di piovere, un timido sole chiedeva al mondo il permesso di scaldare un po’ quei due sciagurati. Vito, con il volto inzuppato dagli schizzi delle macchine in corsa si addormentò come un barbone, sdraiato sul muretto d’argilla. Un ululato improvviso lo destò, a pochi metri da lui un enorme cagnone, anch’esso meraviglia di incroci, stava possedendo Temistocle tenendolo serrato tra le zampe anteriori e con la mandibola saldamente serrata sulla collottola, schiavo di quel ritmo sgraziato e penoso a cui era sottoposto. Dopo il coito, il cagnone nero zampettò via fiero e soddisfatto. Anche il cane s’erano trombato, pensò Vito. Adesso erano in due i trombati, l’uno dalla vita, l’altro dal cagnone nero. Anche se, non ci avrebbe giurato, al buon Vito sembrò di scorgere un ghigno di soddisfazione dalla bocca di Temistocle. E fu in quell’istante che un evento mistico segnò la vita dell’uomo, una forte sensazione di calore lo coprì, una nube colorata esplose davanti ai suoi occhi.

Man mano che il fumo si dissolveva, Vito vedeva materializzarsi una figura umana, o meglio, una parte di essa. Lentamente, prendeva forma, un culo, sì, era proprio un culo, non aveva dubbi. Si trattava di un culo femminile, bello e superbo, un culo da cartolina brasiliana. Vito, trafitto da un inaspettato senso di devozione, si inchinò dinanzi al dio culo in attesa di un suo responso. E difatti il culo, cominciò a parlare al suo nuovo fedele, con voce fredda e lontana, interrotta da equivoci colpi di tosse.

– Tu, meschino! tu, inetto, incapace, derelitto! (prooott!) sei la vergogna dell’umana specie, soggiogato dall’ulteriore scalogna, che ne è del tuo vivere se non ti resta un po’ di culo? (prooott!) il mio potere forgerà un uomo nuovo, un uomo dissoluto e forte, dai muscoli d’acciaio e dalla gran faccia di culo, quell’uomo sarai tu, ti chiamerai Super Vito. Buona fortuna… e che il culo sia con te! – (proooott!) – E il culo scomparve in una nuova nuvola di fumo.

Vito restò giù con la faccia rivolta verso terra, le braccia protese in avanti, stordito, accecato da una passione cocente che gli scaldava il sangue, frutto della mistica esperienza a cui nessuno avrebbe mai creduto. Prima di lui, pochi fortunati eletti avevano goduto di talune visioni, chi a Lourdes, chi a Fatima, chi ad Assisi certo, la sua non poteva dirsi all’altezza delle altre, ma in compenso era la sua prima e forse ultima visione, il dio culo in persona!

Quando ritornò in sé e si rialzò da terra, i suoi abiti erano diversi, una calzamaglia marrone rammendata sul retro e tenuta da una spilla da balia, una cintura gli cingeva la vita e gli teneva su la prominenza intestinale, ai piedi aveva un paio di stivali di gomma tipo “lollipop” e una maschera tenuta con gli elastici delle mutande gli copriva il viso lasciando scoperta solo la bocca. Una enorme “V” sul petto e un ampio mantello beige completavano il corredo del nuovo supereroe di Testaccio. Da quel momento in poi, tutta la città doveva fare i conti con Super Vito. Come neo supereroe, per prima cosa tentò un salto per vedere se anche lui, come i colleghi di film e fumetti, riusciva a volare. Dopo un colpo di tosse equivoca dovuto allo sforzo del salto, Vito spiccò il volo, dapprima un volo disordinato e molto basso, poi sempre più calibrato, modulato con le braccia tese in avanti.

Volava Super Vito, volava, Temistocle intanto, era rimasto a terra svenuto e in balia della catalessi. Con balzo fulmineo Super Vito si mise alla ricerca della macchina nuova appena rubata, con la sua super vista, localizzò i malfattori che la stavano smontando in un’officina tre isolati più avanti. Il supereroe si precipitò sul posto, sfondò la saracinesca dell’officina con una craniata e acciuffò il gruppo di ladri. Un’orgia di sberle, pizzicotti, pestate di calli e tirate di capelli, la macchina venne rimontata in tempo record e i ladri legati insieme dal nastro adesivo saratoga in attesa della polizia, prontamente chiamata da qualche passante che aveva assistito alla scena. Super Vito salì in macchina e si diresse verso casa, giunto sotto il palazzo, parcheggiò l’auto nel box e si precipitò su per le scale.

Entrò nel suo appartamento e sorprese Casimira a far la guardia alla porta della camera dove Natasha sbrigava le sue faccende con i “commenda” over cinquanta. Casimira  lanciò un urlo appena si accorse che sotto il costume da supereroe c’era suo marito, – aiuto! aiuto! il mostro!! – Vito era davanti a lei, con le mani conserte sui fianchi. Con un ghigno diabolico le disse – E si bella tu! – Poi la prese per i capelli e le diede un calcio in pieno culo, facendole misurare la prima rampa di scale. Rimaneva da sistemare la figlia. Vito sfondò la porta della camera da letto di quest’ultima, afferrò l’uomo nudo come un verme per un orecchio e la figlia per i buchi del naso, li trascinò fuori dalla camera e li scaraventò giù per le scale.

Si avventò ancora su di loro e a furia di calci nel culo li spinse in mezzo alla strada. Il commenda fuggì via, sudato e soffiante come un mantice, reggendosi con le mani i cuscinetti adiposi. La figlia, col rossetto sbavato e i capelli rossi cotonati da sembrare un pagliaccio da circo, si occultò piangente dietro la siepe di oleandri del vicino, un certo Nestore, detto “er monnezza”. Nestore, con la bava alla bocca, si mise a contemplare le forme della ragazza, poi dagli sguardi passò alle parole, “- anvedi che bel culo! che mo fai tastà? e anvedi che zinne! a’ gnoccolona, viè  qua da ‘o zio tuo bello viè.-”

E anche questo lavoro fu compiuto. Mancava, il giovane multicolore che l’aveva derubato, quello coi capelli viola. Con un balzo preceduto dal rituale colpo di tosse equivoco, Super Vito cominciò la ricerca del brutto ceffo. Strada volando, s’accorse che un gruppo di colombi gli aveva smerdato il mantello, appesantendolo e complicandogli la traiettoria del volo. Fu così costretto ad atterrare per demerdizzare il mantello e per combinazione vide Ulrico che giocava a palla.

Quale occasione migliore per vendicarsi di quella piccola testina di minchia dalle mille lentiggini multicolori, per prima cosa sequestrò il pallone del bimbo e lo divise in due con un morso. Una metà se la mise sulla testa a mò di papalina, poi tirò fuori il super pisello e riempì di super pipì l’altra metà del pallone che rovesciò in testa a Ulrico, starnazzante e smuccicoso.

La lagna del moccioso lentigginoso richiamò la madre, che fece appena in tempo a dire – ma che è stà carnevalata ma mò te rompo viè quà a’ gran fijo de’ na’ mignotta! – non fece in tempo a portare a termine il turpiloquio che Super Vito le sferrò un pacchero a man rovescio sul lato destro della capoccia e una pizza su quello sinistro, rincoglionendo di brutto la donna. – Piglia e porta a casa stè du’ bruschette, come le chiami te, a’ fracica! – concluse sprezzante Super Vito, tirando su la cintura di contenimento che a malapena riusciva nella sua funzione.

Il corpulento supereroe riprese la sua corsa alla volta dell’idiota tempestato di orecchini. Ma il mantello ancora smerdato gli impedì il decollo, e così decise di correre. Veloce come il vento si immise sul GRA direzione Nomentana. Da Testaccio a Tor Sapienza, dalla Prenestina alla Tiburtina giunse a via Nomentana dove, tirando il fiato per quella super sfacchinata (tutta colpa della trippa) il suo super udito gli segnalò le grida d’una vecchina alle prese con un borseggiatore,

– è il mio uomo non c’è tempo per riposare, questo è un lavoro per Super Vito – esclamò. All’ingresso della metro B di Pietralata a San Basilio, il giovane teppista stava cercando di derubare una vecchina che si difendeva ferrigna a suon di ombrellate. Il nostro eroe fu subito addosso al delinquente e lo neutralizzò cacciandogli un dito nell’occhio e piazzandogli un calcione in piena faccia, poi lo legò come un insaccato. Prima di andar via, Vito non poté fare a meno di chiedergli perché aveva tutti quei buchi alle orecchie e perché portava l’orecchino al naso, il giovane rispose che così aveva l’alibi per non soffiarselo. E sul perché del piercing al sopracciglio, rispose che era un’usanza tramandatagli da suo nonno per combattere un brutto vizio, incuriosito ancor di più, Vito gli chiese di quale vizio si trattava, e la risposta del giovane non si fece attendere, metterlo in quel posto ai curiosi.

Super Vito corse via senza batter ciglio tornò a Testaccio e là fu acclamato dalla gente del suo quartiere. Ovunque impazzavano frasi di incoraggiamento, del tipo: – Ahò è gagliardo super Vito! – E ancora: – A’ super Vì, Ronardo te fa’ na’ pippa! lunga vita a super… coso lì forza lupi! – O ancora: – Anvedi che sagoma sto’ super eroe, viva super Pippo! – Peccato però che pochi di loro azzeccavano il suo vero nome. Ovunque si udiva “super Tito”, “super Cicco”, “super Zico” o “super Rico”. Ma pazienza. Ormai il cielo si era imbrunito e la luna già s’era accesa alta nel cielo.

Il nostro eroe voleva solo ritrovare il caldo abbraccio del suo letto, dopo una giornata di glorie. Sotto casa trovò er chiavica, che gli disse: – A’ zorro. – Super Vito, prego – corresse seccato il super eroe.– Va be’, fa lo stesso, lì complimenti da parte mia e da’ mì signora Adriana! – Il fruttarolo, detto er cipolla, gli toccò il mantello e si accorse delle smerdature – A’ Diabbolicche, se c’hai bisogno de na’ lavata… manda tutto da mì fratello, er pomata, che c’ha na lavanderia a testaccio, pettè tutto aggratise! – Un breve saluto al portiere, detto “Sor lì cazzi tua” e al macellaio, detto “manzotin” un autografo a Gianna, la lucciola della cooperativa, che in quel mentre montava a lavoro, un bacio a Cesarina, la figlia di Marcello, detto “er gastolo” e finalmente Vito entrò in casa sua.

La prima sensazione che avvertì fu un super stimolo fisico, ancora col mantello, corse in bagno e si dispose a fare il suo primo bisogno da supereroe. Dopo la breve ma intensa esperienza, si sfilò la tuta annerita dai gas di scarico (e dai colombi) si infilò il pigiamino dell’uomo ragno, si dette una lavata ai denti col dentifricio “pasta del capitan fracassa” e proprio mentre stava per infilarsi a letto squillò il super telefono (super, per le bollette):

– Pronto..? – e dall’altro capo – pronto… che c’è Mandrake? – Vito attaccò subito la cornetta e si infilò a letto. Finalmente solo, la mummia impagliata stava in ospedale, la figlia troia era fuggita via a far la mantenuta da qualche commenda coetaneo del padre e Temistocle stava probabilmente prendendolo nel didietro da qualche parte. Anche il cane frocio ci voleva, e buonanotte.

– A’ fracicò e scolla sto’ culo, movite che so’ e sette!! va a lavorà, ‘nfamone! aaahhhòooo!! svegliaaaa!! – era Casimira, la moglie assassina.

Era tornato l’inferno per il povero Vito, allora… era stato tutto un sogno?!

 

Ludimagister (Nick)

 

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